Rapporti&Relazioni
Succubi dekl calcio

di Gian Paolo Ormezzano

Strettamente personale. Chi non è interessato a quello che magari bizzarramente scrivo, desista subito. Se va sino alla fine e si arrabbia, non dica poi che non lo ave­vo avvertito.
Dunque: io al ciclismo praticato da giornalista devo pane e caviale, lo amo anche se non sempre gli voglio bene. Non mi va il doping, ad esempio, o me­glio un certo modo illegale, ma soprattutto truffaldino nei ri­guardi degli altri, di usare la progredita e anche spinta me­di­cina disciplina sportiva. A mano a mano che invecchio e mi fanno totem (basta l’età, sia chiaro, nessun merito speciale: e infatti io sempre parlo di mie squallide ragioni anagrafiche) ricevo sempre più inviti da persone, associazioni, circoscrizioni, teatri, scuole, università del­la terza e anche decima età, club, società, convitati a cene o pranzi tematici, circoli, tavole rotonde, tavole quadrate, tavole rettangolari, per parlare di ciclismo ad un pubblico di vecchi vecchissimi o di giovani in­vecchiati che sospirano sulla crisi anzi spesso sulla decadenza dello sport della bicicletta, che invece secondo me sta co­noscendo nel mondo il periodo di suo massimo splendore (co­se già scritto qui, ma repetita juvant: non repetita juve, come provocatoriamente diceva ai suoi redattori napoletani un di­rettore calciofilo piemontese di un grande giornale del Sud). Molto spesso però, oltre ad in­vitarmi a dire la mia su questo tema cosmico, mi chiedono di dire la mia su un tema comico, che si chiama gioco del calcio in Italia, e ad un certo punto, dal loro intenso interesse pruriginoso e persino sporco, ho il va­go sospetto che tutti, compresi i corridori, i campioni par­tecipanti al teatrino, siano in fondo calciomani ai quali del ciclismo, in fondo in fondo, non frega niente.

Il problema qui, in questo articolo, non è comunque quello di cercare ancora una volta di spiegare che il ci­clismo è diventato sport del mondo tutto, emisfero australe compreso, con competizioni do­dici mesi su dodici, alla faccia dei ridicoli raduni invernali sulla nostra riviera dove ormai piove sempre, con corridori for­ti ormai da ogni posto del mondo. con pratica enorme do­vunque e da parte di maschi e di femmine, con vasto e splendido arrière-gout ecologico, con futuro garantito dalla fi­ne del petrolio per motori non umani. Chi capisce capisce, gli altri si possono masturbare di nostalgia di quello che era, lo si capisce adesso, il no­stro piccolo villaggio italo-franco-belga, posto comunque di splendide avventure poetiche.
Il problema vero è quello di capire perché rappresentanti di uno sport come non mai di­vampante davvero, in tutto il mondo, uno sport globale ed ecumenico, umile e santo, mo­rale come ispiratore e cultore e cantore di fatica onesta, abbia adepti anche importanti che alla fin fine vogliono parlare di calcio e mi chiedono: “Ma tu che sai le cose, adesso a noi, qui, puoi dire davvero perché tizio ha rotto sul campo di calcio con Caio”. Come se io da giornalista (lo faccio da ap­pena sessantuno anni, è vero, ma è pur sempre qualcosa) avessi celato, per paura o chissaccosa, ai miei lettori non solo un particolare importante e soprattutto un problema sportivo di fon­do, avessi coltivato e sostenuto tesi che però non partecipo, insomma fossi stato un disonesto, un gaglioffo, un censore di me stesso.

Cosa ha diabolico, di perverso, di orrendamente forte il calcio per penetrare/penetrarci, per condizionarci sino a questo punto? Sap­piamo tutti che è marcio, fasullo, corrotto, miserabile, posseduto dalla mafia e dalla camorra e insomma dal crimine, “recitato” da dirigenti scarsi o disonesti, da procuratori astutissimi e rapaci, da calciatori che sono pronti a tradire i loro eventuali affetti ed anche i loro concreti contratti in cambio di più denaro, capaci i mi­gliori (!!!???) di inventare la nauseabonda non esultanza per il gol se lo hanno segnato a chi sino a ieri passava loro lo stipendio.
Tutti sappiamo tutto, dunque sappiamo tutto del suo male, eppure tutti siamo di lui schiavi, succubi, precettati, adepti, arruolati, membri, lanzichenecchi, adoratori, cultori, leccapiedi e scendiletto. Parlo con quello lì, o parlo con gli astanti di quello lì che è proprio lì, davanti a loro ed a me, e che è uno che ha vinto il Giro d’Italia, spero che né il mio campione né altri mi chiedano indiscrezioni su certa squadra di calcio, macché.

Il fondo dell’abiezione: quel giorno in cui un nostro ci­clista celebre e bravo vin­se la Milano-Sanremo, riuscii ad avvicinarlo subito dopo il traguardo e gli dissi di lasciar perdere ogni riferimento alla sua squadra calcistica del cuo­re, fra l’altro da me non amata, on­de non rimpicciolire ed im­poverire la sua vittoria davvero storica, e lui protervo mi disse: “Magari non ci pensavo, ti ringrazio di avermi dato l’idea”. Andò alla tivù e dedicò il suo successo a questa squadra pallonara, pallonarisisma. Che già non amavo e che “disamai”, se possibile, ancora di più.
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