Rapporti&Relazioni
Non siamo campioni del mondo

di Gian Paolo Ormezzano

Cerco di spiegare perché mi sento migliore italiano a ti­fare contro la Nazionale di calcio che non a tifare per essa. Mi­gliore o forse soltanto meno peg­giore, ma non cambia la so­stanza della mia spiegazione, della mia difesa, se di difendermi ho bisogno.
È passato un certo periodo di tem­po dalla spedizione pallonara az­zurra in Brasile, con tanto di eliminazione quasi repente causata dal­la vittoria dell’Uruguay nella partita decisiva. Ci ho pensato sopra be­ne, voglio dire, ma d’altronde sto facendo certi esercizi da anni e anni, come giornalista e ancor più come cittadino.
Dunque il fatto è che non riesco im­pedirmi di pensare come e quanto un successo azzurro nella massima rassegna calcistica mondiale verrebbe malamente usato non solo da chi ci governa, o co­munque ci comanda, ci gestisce, ma da noi stessi. È vero che abbiamo già vinto il titolo massimo del pallone quattro volte, ma è anche vero che per quattro volte il calcio col suo trionfare ha fatto del male al resto dello sport italiano. Di più: al resto tutto dell’Italia. Non ha trascinato niente di serio, di culturalmente valido in alto con sé, non ha spartito con tutto il resto dello sport i fasti, la ricchezza di entusiasmi, la felicità sia pure passeggera e epidermica della gente italiota.

La cosa è apparsa notevole, e notevolmente balorda, specialmente nel corso dei due ultimi successi, anno 1982 e anno 2006. Quando è stato fatto delle vittorie nel calcio un uso peggiore di quello, tutto sommato così tronfio da apparire più ridicolo che au­tenticamente gioioso, che ne fece il fascismo nel 1934 e nel 1938.
Se diventiamo campioni del mon­do di calcio ci sentiamo, di colpo, tutti diversi da quelli che siamo e diversissimi da quelli che dovremmo essere. Ci sentiamo furbi, intelligenti, forti e ardenti, innamorati del nostro paese formidabile e fa­voloso, ricchi di senso pratico e di ideali. Cantiamo Fratelli d’Italia, l’inno, e ci crediamo, crediamo a quello che esce dalle nostre labbra.

Dimentichiamo che negli ul­timi anni specialmente siamo scesi di brutto nelle graduatorie morali e culturali e an­che sanitarie del mondo. Che in Italia si legge sempre di meno, si studia sempre peggio, intanto che si pratica sempre più la corruzione, diventata un modo di vivere. Che non sappiamo difendere il no­stro passato, e figuriamoci se sappiamo gestire il nostro presente e il futuro nostro anzi dei nostri figli in un mondo di lupi tecnologici e intanto di grandi popoli emergenti, di istanze nuove. Nel 2006 arrivammo allo sconcio, autentico, di esultare perché il successo calcistico mondiale dell’Italia, inatteso, rocambolesco, si era sovrapposto al­lo sdegno comunque avvertito, patito per Calciopoli: insomma, eravamo riusciti a elaborare un successo sul campo in un senso di superiorità, di immunità, di impunità.

Provi qualcuno a immaginare, con serenità ma anche con giusta valutazione di uomini e cose, come sarebbe l’I­ta­lia 2014 dell’informazione, della quotidianità, e anche della transumanza per le vacanze e i viaggi estivi, delle sedie a sdraio, se un gruppo di giocatori di calcio le avesse dato il successo nel mondo. Quale ulteriore, supplementare bru­tale rinvio di attenzioni subirebbero i nostri veri problemi, che si chiamano corruzione, già detto ma mai ridetto abbastanza, ignoranza, scarso senso ecologico, ri­fiuti tossici a go-go, dissesto del territorio, musei alla rovina…

Esageriamo? Pretendiamo di ascrivere allo sport la re­sponsabilità, e in questo ca­so la colpa, di una parte troppo importante del vivere, del divenire nazionale? Facciamo finta che sì, stiamo esagerando. Limitiamoci allora a pensare al resto dello sport italiano quando è sbattuto via dal­lo tsunami di follie calcistiche. Il ciclismo ha vissuto durante i Mon­diali di calcio, penosi per la nostra deludentissima Nazionale, una vi­ta ben grama: due righe per le sue gare su giornali che appena pochi anni fa pubblicavano, su quelle stes­se gare, articoli e articoli. Dico il ciclismo perché lo sento un bel po’ anche mio, se non altro in chia­ve di nostalgia e riconoscenza, ma dico il ciclismo anche perché ritengo che mai come di questi tem­pi lo sport della bicicletta goda di mondializzazione, globalizzazione, diffusione nuova e imponente dovunque, possesso del calendario tutto l’anno, afflusso di sponsor possenti, e pazienza se non ci possiamo più sollazzare sulle stradine del villaggio italofrancobelga in cui siamo cresciuti.

Coraggio, chiudete gli occhi e immaginatevi un’Italia che approfitta dei successi nel calcio per sentirsi a posto con le regole moderne del successo, con i dettami forti di vita intensa e ricca, per prendersi sul serio nonostante tutte le baggianate che si è inventata e gli insulti che ha patito. E che dopo la festa mondiale si pa­sce di mirabolanti notizie su quella faccenda importantissima che chie­de tutte le attenzioni anche se è pura fuffa cioè meno ancora di fuffa pura, anche perché è così, e che però nutre le fantasie di un ex popolo di santi, navigatori e poeti: il calciomercato.
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