SOLO UN’ORETTA. È stato anche il mese dei 30 anni dal record di Francesco Moser, quello che ha di fatto proiettato lo sport e non solo il ciclismo, in una nuova dimensione. Uno sport fatto di ricerca, di preparazione, ripetute e computer (all’epoca Olivetti, il Mac era nato proprio in quei giorni), di lenticolari, carbonio e manubri a corna di bue, di telai ad asse variabile e gallerie del vento, cardiofrequenzimentri e acido lattico: insomma un ciclismo e uno sport che di fatto in quei giorni ha lasciato l’empirismo per entrare direttamente nella scienza grazie agli scienziati.
In questi giorni abbiamo celebrato, chi più chi meno, Francesco Moser e l’equipe medica della Enervit. Comunque la si voglia pensare, quel record ha qualcosa di grande e dietro a questa immane impresa c’è la figura ingombrante e discussa di Francesco Conconi, che dalla Gazzetta è stato in pratica ignorato, di fatto cancellato. Non solo: Marco Pastonesi arriva a far dire a Moser che nessuna autoemotrasfusione è stata fatta «né per il primo né per il secondo tentativo», e nasconde dalla cronaca di quei giorni uno dei protagonisti principali di quella felicissima missione: Conconi, appunto.
Di lui non se ne parla, si fa finta che neanche sia passato dal maso di Francesco per brindare a quel fantastico record. C’è qualcosa di irritante in tutto questo. Si racconta una storia parziale perché Conconi imbarazza, quindi si fa finta di nulla: senza imbarazzo. Come se Conconi in tutto quel lungo periodo di allenamenti test e valutazioni, ricerche e prove, sia passato di lì per caso, per salutare: solo per un’oretta.
SILENZIO. Potrei ripubblicare pari pari l’editoriale apparso sul numero di marzo di tuttoBICI del 2004. Dieci anni fa commentai con il groppo in gola la perdita di un amico, di un immenso corridore che, ferito nell’orgoglio, ha cercato con ostinata determinazione l’autodistruzione per lasciarci in eredità il peso della sua assenza. Chiesi un po’ di silenzio, cosa che dovrei richiedere esattamente anche oggi. Dieci anni fa preannunciai che si sarebbero scatenati scribi di ogni tipo e fattezza, con le loro verità, ricostruzioni e supposizioni. In questi anni sono usciti molti volumi. Ne elenco in ordine sparso solo alcuni, quelli che ho letto: «Un uomo in fuga», di Manuela Ronchi e Gianfranco Josti, «Gli ultimi giorni di Marco Pantani», di Philippe Brunel, «Un uomo venuto dal mare… che ama le montagne» di Gianfranco Camerini, «Pantani un eroe tragico» di Pier Bergonzi, Davide Cassani e Ivan Zazzaroni, e poi «Era mio figlio» di mamma Tonina con Enzo Vicennati, «Con le ruote ai piedi» di Romina Volpi, «Appena sotto il cielo» di Fabio Marmaglia, «Ultimo chilometro» di Andrea Rossini e «Marco Pantani, una vita da Pirata» di Beppe Conti. E ancora: «Pantani vive» di Stefano Fiori, «Marco Pantani, mito e tragedia» di Salima Barzanti. Undici lavori, ai quali si sono aggiunti in questi giorni «In nome di Marco» con mamma Tonina e Francesco Ceniti e «Pantani era un Dio» di Marco Pastonesi. Era prevedibile che fiorisse la letteratura su uno dei campioni più amati dello sport italiano, che ha unito le tifoserie anziché dividerle come era accaduto in passato. La storia di Pantani, sublime e tragica, si prestava e si presta al racconto: era facile prevederlo.
Quello che mi sconcerta e fatico a comprendere è questo “disturbo bipolare” di cui soffre il giornalismo italiano. Pantani Dio o mostro? Eroe da idolatrare o simbolo del male? In questi anni abbiamo visto e ascoltato di tutto. Ma se è giusto che ognuno abbia la propria opinione, che può anche subire delle sensibili modificazioni nell’arco del tempo, lascia perlomeno basiti la disinvoltura che molti miei colleghi mostrano sull’argomento da una settimana all’altra. La commissione del Senato francese per la salute pubblica che ha indagato sui controlli del Tour del ’98 rivela che Pantani era carico di Epo? Giù a massacrare il Pirata che non c’è più. C’è da celebrarlo perché in questi giorni cade il decennale della sua morte? Nessun problema: si celebra. Se è per far cassetta diciamo anche che è stato una vittima. Che l’hanno ammazzato. Anzi, alimentiamo il dubbio così ognuno di noi ha un buon motivo per indagare e scrivere altri libri. Magari strombazzando incredibili rivelazioni e vizi di forma che inquinarono il controllo del 5 giugno del 1999 a Madonna di Campiglio («In Nome di Marco», Francesco Ceniti), e chissenefrega se quelle stesse rivelazioni erano già state rese pubbliche dal collega francese Philippe Brunel che per lo stesso editore (Rizzoli), le scrisse nel 2008. «Repetita iuvant»: rilanciare una tesi o una notizia è sempre buona cosa, ma farlo sulla pelle di un ragazzo che non c’è più e sulla sua storia tragica non ci sembra assolutamente un bel modo di ricordarlo. Bastavano le parole belle e private di mamma Tonina, che «In nome di Marco» ha raccontato il suo piccolo con la dolcezza e l’amore di una mamma che non si dà pace.
Io, come dieci anni fa, voglio ricordarlo come il corridore che più di ogni altro mi ha esaltato. Mi ha fatto sognare. So razionalmente che probabilmente il suo sangue era ‘arricchito’, ma so anche che non era il solo, ma è il solo che ha pagato un prezzo altissimo, spropositato, perché anche nella sconfitta lui era diverso dagli altri. Il suo orgoglio era smisurato e la sua forza era anche la sua debolezza. Per dirlo senza tanti giri di parole, Marco Pantani non era Danilo Di Luca. Riguardatevi l’intervista che rilasciò a Gianni Minà e vedrete un Marco orgoglioso ma sofferente: ferito. Non compiaciuto come l’abruzzese.
Dieci anni fa, una ventina di giorni prima della tragedia, su tuttoBICI di febbraio pubblicammo un articolo a firma Angelo Costa, che raccontava un’altra verità. Mentre quasi tutti, dalla Gazzetta in giù, raccontavano una storia dettata da Manuela Ronchi, manager del Pirata, che Marco - è bene ricordarlo - fortissimamente scelse e volle, fatta di promesse e annunci immediati di ritorno all’attività agonistica, Angelo per noi computò righe che sono lì da rileggere. Titolammo «Marco Pantani, game over». E il sommario recitava: «Non è vero che il Pirata si allena, non è vero che sta bene, non è vero che sta solo cercando gli stimoli. E non c’è nemmeno una possibilità su dieci di rivederlo in bici: game over. Il gioco è finito, basta con le ipocrisie e le speculazioni. Portiamogli un po’ di rispetto. Sono altri, e ben più gravi, i problemi del Pantani uomo». Questo per dire che in questa terribile storia ci sono troppe verità. E le più vere vengono allegramente dimenticate. Non raccontate. Si vuole raccontare tutta un’altra storia, che ha responsabilità ben precise, nomi e cognomi, compreso quello di Marco Pantani, che cocciutamente si è consegnato e affidato alle persone sbagliate.
Marco avrebbe voluto che i suoi colleghi parlassero, raccontassero con nomi e cognomi come funzionava il ciclismo in quel periodo. Non voleva essere la sola vittima sacrificale. Non voleva pagare il conto per tutti. I suoi colleghi decisero di tacere, Marco ha deciso di inseguire con orgogliosa determinazione il silenzio eterno. Una brutta storia, a tratti aspra e cattiva, che ha una sola verità. Tutto il resto sono speculazioni e prove di vanità sulla pelle del povero Marco, che avrebbe bisogno solo di rispetto. E di silenzio.
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