Scripta manent
I Giri sfimiti di Van Looy

di Gian Paolo Porreca

Vivamente raccomandata la maglia della Faema, lana spessa, bianco e rosso, ma a strisce orizzontali, per questa ru­brica di dicembre, e carezzare di un rustico tepore la nostalgia del ciclismo. Le bande larghe orizzontali, ribadiamo, non ancora la Fae­ma new age secondo Merckx ’68, per intenderci: ma quelle che avevano di già esaltato un mistico Gaul, nel ’56 sul Bondone. E an­cor più, qui, quelle che ci restano emblematiche di Rik Van Looy, il celeberrimo campione belga, “anzi fiammingo”, che compirà 80 anni - ma sarà poi vero, ’sto venerando traguardo, lui che nell’animo cor­re ancora con la foga dei 20 anni... - il 20 di questo mese.
Prima di Merckx e dell’adolescenza del ciclismo, c’è stato Van Looy, in noi.
E la fanciullezza del ciclismo. Per chi predilige ancora, in stagioni do­ve la moda è il “noir” bastardo, queste atmosfere di colori discreti.
Rik Van Looy, velocista passista fondista, una lunga carriera di professionista estesa dal ’53 al ’70, per un totale di 371 successi, secondo fra i plurivittoriosi di ogni epoca al solo Merckx, intoccabile al sole delle sue 445 vittorie, interpreta il ruolo palpitante di un attaccante temerario, il cuore perennemente al di là dell’ ostacolo. Già, quell’ostacolo per lui rappresentato, lui e le sue “guardie rosse” innanzi o al fianco, da Sorgeloos a Schroeders, per concetto tecnico o per metafora ciclosofica, dalla salita…
E sì, perché Van Looy, campione ir­redento, resta primo, pur così lontano, nell’immaginario e nel sentimento personale, non solo (e non tanto) per il curriculum irripetibile nelle grandi prove in linea, lui che ha vinto almeno una volta tutte e dieci quelle della tradizione, quelle del Decalogo classico, mentre Merckx, di contro, paradigma di confronto obbligato, non avrebbe conquistato la Parigi-Tours… Milano-Sanremo (’58), Giro di Lombardia (’59), Parigi-Roubaix (’61,’62, ’65), Giro delle Fiandre (’59, ’62), Liegi-Bastogne-Liegi (’61), Freccia Vallone (’68), Gand-Wevelgem (’56, ’57, ’62), Parigi-Bruxelles (’56, ’58), il ‘Mondiale’ (’60, ’61) e la Parigi-Tours (’59, ’67), appunto, tanto per sciorinarle, le imprese di Van Looy.

Quel Van Looy, soprannominato Rik II, per distinguerlo dal maestoso Van Steenbergen, Rik I, un sovrano di cui era il delfino riconosciuto... Quel Van Looy, ancor meglio in gloria come “Imperatore di He­rentals”, pur quando disceso dalle due ruote, secondo il lessico del ciclismo belga da sempre affezionato ai monarchi ed alle dinastie, resta per noi ancor di più. Resta infatti la perenne rincorsa ad un sogno mai raggiunto, sempre svanito. Resta, accattivante, come l’amore sospeso.
Ed è l’assalto puntuale al Giro d’Italia, mai vinto, con quella ma­glia “Faema” indosso. Parti­co­lare che di fatto, sulle sue spalle di cam­pione dichiarato, avrebbe co­stituito un interludio “perdente” fra Gaul e Merckx.
Quel Giro dalla maglia rosa che tanto intriga la famiglia Valente della Faema, che non è mica il Gi­ro di Sardegna, che pure quel Van Looy nostro - grande fisico, grande potenza, 80 chili distribuiti per un metro ed ottanta, perchè i ciclisti allora non erano trasparenti come quelli di oggi - avrebbe vinto per tre volte. E l’ultima, nel ’65, vincendo tutte le tappe, ad eccezione di una, concessa allo scudiero Edward Sels. Quel Giro della maglia rosa, che aveva conosciuto, ragazzino, nel ’55, arrivando addirittura ultimo in due tappe, - in una, pensate a Sanremo... - e ritirandosi presto, ma che avrebbe disputato invece da attore protagonista, melodrammatico forse, ma mai patetico, innanzitutto nel triennio 1959-61.

Quei tre anni di Giro, sotto la guida di Guillaume Driessens, uno che era sta­to al fianco di Coppi e che un giorno avrebbe pilotato Merckx, che pure aveva cominciato, nell’edizione ’59, in maglia rosa: primo a Salsomaggiore, davanti a Vannit­sen e Poblet. E non avrebbe mai potuto presagire, il Van Looy campione, che quella prima sarebbe stata l’ultima ed unica maglia rosa della sua carriera. Quarto in quel ’59 di Gaul, dopo un attacco spropositato nell’Aosta-Courmayer, undicesimo nell’edizione ’60 vinta da Anquetil, il “topos” agonistico sublime di Rik Van Looy nel ro­manzo del Giro rimane però la Trento-Bormio, penultima (e de­terminante) frazione del Giro ’61, conquistato a sorpresa da Pam­bian­co. In quella tappa, Van Looy recitò infatti da massimo epigono di Van Looy. All’attacco subito, per demolire gli avversari, con il riferimento di uno scudiero tedesco, hai visto mai, Fischerkeller, Van Looy si ritrovò ad avere - in fuga, da solo - oltre otto minuti di vantaggio.

Era l’Eldorado ad un passo: vincere il Giro... Ma il Pas­so da superare era lo Stel­vio, Cima del Giro, ed è lì che Van Looy crolla di schianto, ed è ancora lì il bianco e nero della foto im­pietosa in cui Van Looy, in maglia di campione del mondo, viene raggiunto e superato da Gaul. Finiva quel giorno la speranza di gloria in un Giro di Van Looy.
Una sola maglia rosa, in tutto. Un solo giorno. Una illusione troppo effimera di gloria. E pensare che in quello stesso Giro, un suo gregario, Van Tongerloo, ne aveva in­dossato addirittura due…
Ma Van Tongerloo non aveva vin­to nulla, nella vita. E lui invece, nei giorni e negli anni, non solo per noi che con la maglia Faema ci ri­scaldiamo l’inverno del tempo, sarebbe rimasto per sempre Rik Van Looy.

Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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