Rapporti&Relazioni
L'idea del matto

di Gian Paolo Ormezzano

Arrivato ad una certa età - che è poi un’età incerta, perché chi la vive non sa bene se è definitivamente vecchio o definitivamente giovane, nel senso di ormai rimbambito che come diminutivo ha rimbambinito - il giornalista serio, o quanto me­no impegnato per esserlo, può an­che permettersi di fare il sentimentale, cioè oggi come oggi, alla luce del realismo imperante, il matto.

Chi scrive queste righe ad esempio passa per matto quando, anche e specialmente di fronte a colleghi giornalisti giovani e ruspanti anzi rampanti, i quali gli parlano del ciclismo come di uno sport malato di doping, anzi di gran lunga il più malato, se non addirittura il solo veramente malato, risponde che il ciclismo è lo sport più sano e pulito di tutti, e per una semplice ra­gione: che pratica l’antidoping, e duramente, e anche masochisticamente, e quasi sempre volontariamente (non così nel caso dell’O­pe­ra­zione Puerto, d’accordo, dove i ciclisti sono stati brutalmente mes­si di fronte alle sacche di sangue predisposto: ma sono state scoperte anche sacche di tanti esponenti di altri sport, e c’è voluto un lento processo di fronte alla giustizia spagnola ordinaria per cominciare a parlicchiarne). Il matto precisa anche che si contano sulle dita di una mano mutilata gli sport che fanno antidoping serio: l’atletica leggera, il sollevamento pesi, lo sci nordico... Col ciclismo, siamo a quattro: appunto. Sempre il matto si dice convinto che gli sport senza doping sono molto semplicemente quelli che non fanno antidoping, compresi si capisce quelli che fan­no finta di farlo, con controlli ap­prossimativi, “telefonati”, ed esiti predisposti all’alterazione o alla minimizzazione o addirittura alla rimozione.

È recente l’allarme della Wada presso l’Uefa per l’inconsistenza dei controlli nel calcio, e intanto per la convinzione che si vada sul pesante nel compiere infrazioni. Altri sport giocano all’antidoping solamente ogni tanto anzi ogni tantissimo, con esami molto pubblicizzati pe­rò mirati ad una certa sostanza, ad una certa pratica, ad una certa ma­nifestazione, e amen. La loro gente non vuole sapere, quando non è la gente tutta che vuole non sapere. Ne ha già abbastanza del ciclismo, usato come sfogatoio dell’indignazione benpensante (shampoo delle coscienze, siamo fieri della definizione molto nostra).

Il mondo dello sport accetta e anzi sottolinea i responsi dell’antidoping olimpico, molto contento del fatto che la percentuale degli atleti scoperti dopati dai controlli du­rante i Giochi sia bassissima. Il fat­to è che è ridicola, troppo incredibilmente bassa per essere vera. Adesso si parla di andare indietro, controllando alla luce di nuove scoperte, di nuove procedure i prelievi di anni e anni fa, come è stato fatto per Lance Armstrong. Ma ci sembra scommessa troppo facile da vincere quella per cui, se­condo noi, non sarà scoperto niente di grave, in pratica non accadrà niente di serio… E l’ipotesi, più che fondata, di un costo altissimo di questi controlli funziona già da primo deterrente.

Passiamo al secondo pensiero matto. Che non è un pensiero complesso, basato su numerose constatazioni, è diciamo un sentimento semplice e semplicemente palesato. Quando qualcuno ci chiede se il ciclismo non tornerà più (in Italia, perché in tanto altro mondo sta benone) quello di un tempo come presa sul­le folle, interesse di massa, picco alto ed epico nell’orografia dello sport, non solo rispondiamo di no, perché strade e biciclette so­no troppo comode, perché si va verso specializzazioni che premiano lo sport estremo però escludono l’epopea che è fatta di tante co­se, spalmate nel tempo, non di una sola cosa, una cosissima sia pure stupefacente: E insomma non solo neghiamo ogni possibilità di revival di fasti vecchia maniera, ma ci diciamo felici che questo non pos­sa avvenire.
Felici perché il passato, che ci ap­partiene per visione diretta, che si nutre anzi si impreziosisce per la sua irripetibilità che vuol dire unicità, diventa leggenda se non è ri­producibile, si ammanta di storicità proprio quando altre entità possiedono e spupazzano la cronaca.

Ci sono situazioni molto semplicemente irriproducibili. O anche situazioni che si vuole che non si riproducano. Parlando dell’Italia, ad esempio, è chiaro che Bartali e Coppi hanno assunto un rilievo straordinario, mitico intanto che mistico, perché hanno agito per conto e quasi per delega di un popolo sconfitto, pedalando fra le macerie, nella scenografia della tragedia ancora persistente e intanto della ricostruzione subito cominciata. A chi sospira che purtroppo non ci sono più i Bartali ed i Coppi, e ci chiede se non ci saranno mai più, rispondiamo che ci vorrebbe in­nanzitutto un’altra guerra, per poi vedere se fra le macerie spuntano i fiori di allora. Chiaro che anche se fosse possibile l’evento della riproduzione, non ne varrebbe la pena. E quando definiamo Merckx il più forte di ogni tempo, ma Coppi il più grande, pensiamo che se Merckx avesse pedalato nell’Eu­ro­pa delle distruzioni. impersonando la ripresa degli spiriti e non solo, forse adesso lo considereremmo più grande di Coppi, e senza timore alcuno di bestemmiare, anzi di bestemmiarci addosso.
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