Direi che non è più il caso di attendere. Abbiamo visto abbastanza. Non corriamo il rischio d’essere superficiali e precipitosi. Sì, possiamo tirare una conclusione molto giustificata e molto ponderata. È il momento di dichiarare ufficialmente aperto lo stato di crisi.
Siamo in crisi di risultati, nel senso che non vinciamo una cosa vera da epoche immemorabili, e siamo in crisi di interesse. Sicuramente la seconda è anche effetto della prima: ma non solo. Persino in caso di buoni risultati, è sempre più problematico ottenere attenzione dai media. I media sentono che il grande pubblico non è più così interessato. Resiste lo zoccolo duro, che il Cielo lo conservi a lungo, ma fuori dalla cerchia di noi quattro fanatici non si sente più nessuno parlare di ciclismo. Questa la verità. Inutile poi chiederci come gonzi fatalisti perché mai sponsor e magnati siano sempre più recalcitranti al nostro richiamo…
Facciamoci caso: nell’ultimo periodo, il ciclismo è riuscito a catturare interesse, a far parlare di sé, con ripieghi che non c’entrano nulla con il ciclismo. Forse io sono un po’ rimba, ma mi pare che l’ultimo clamore l’abbiamo rilevato con il Giro di Padania, ma non certo per la corsa in sé, che era ben poca cosa. Quanto al resto, silenzio totale e disinteresse generale. E non voglio parlare del Mondiale, perché quello è un disinteresse che ci siamo andati a cercare con il lanternino, con lucida determinazione suicida, organizzando una corsa - già di per sé balorda per collocazione autunnale e per ambiguità del risultato - monotonamente riservata agli sprinter. Sappiamo cosa questa scelta internazionale abbia significato per noi: inutile star qui a infierire, ma è dura in un’Italia disinteressata pietire interesse con la nazionale di Bennati e Modolo, gran bravi ragazzi, niente da dire, però pressoché ignoti al di fuori della loro cerchia familiare.
Mettiamocelo in testa: la concorrenza degli altri sport, ma persino delle altre occasioni di intrattenimento, dal cinema alla musica, è spietata. Ormai l’offerta è gigantesca. Chi non tiene alto il suo appeal, viene bellamente ignorato. Piccolo esempio: persino l’Inter campione, quando ha giocato contro ignoti e impronunciabili turchi in Champions League, si è trovata attorno un gelido deserto. E allora cosa pretenderemmo noi, di strappare attenzione e passione con questa pochezza?
Sono pesantemente incarognito, nel dire queste cose. Non mi piace il disfattismo per il disfattismo. Mi piacerebbe parlare di un vero rinascimento, pagherei anche qualcosa di tasca mia. Ma purtroppo non è questa la situazione. E prima ne prendiamo atto, prima possiamo inventarci qualcosa per uscirne. Certo, abbiamo sempre davanti un presidente federale ineffabile e rassicurante, quel Renato Di Rocco che ogni volta tranquillizza la nazione citando i dati dei tesseramenti in aumento (vai a sapere, n.d.r.). Ma avere un “presidens ridens” non ci pone al riparo dalla grandine. La grandine c’è e la si sente tutta.
Ovvio, mica è tutta colpa del popolare Di Rocco. Ci mancherebbe altro. Il primo, vero problema nostro è la mancanza del campionissimo, che in qualunque sport individuale determina i successi d’ascolto. Quanto questo sia vero lo comprendiamo ogni volta che un giovane Nibali riesce a inventarsi qualcosa di speciale: improvvisamente, sembra che la luce si riaccenda. Ma purtroppo quest’anno Nibali non è esploso come tutti ci aspettavamo (diamine: si fa l’anno prossimo, ce lo deve), e altro non c’è rimasto. Basso, lo dico addolorato, è da voto 2: un campione come lui, che punta la stagione e la faccia sul Tour, non può venire a rifilarci il Giro di Padania, c’è un limite a tutto. Cunego si è battuto bene, Scarponi pure, ma neppure loro sono riusciti a strappare un’apertura di Tg con l’impresa giusta. Niente, da troppo tempo siamo sottotono e sottotraccia, e l’effetto palude è purtroppo inevitabile.
Eppure, anche in assenza o in attesa del campionissimo, qualcosa di più e di meglio potremmo avere. A livello di pratica popolare, il ciclismo è l’unico sport che viva un colossale boom. Chi gira la domenica per località amene, anche soltanto in auto, sa che cosa intenda dire: noi ciclisti ormai sbuchiamo da tutte le parti. Sì, assistiamo a questo mistero incredibile: gli italiani praticano sempre più uno sport che guardano sempre meno. Qualcuno sa dirmi perché?
Io ho una mia idea. Se il “presidens ridens” e i suoi uomini, anziché trastullarsi nei loro simposi pieni di reducismo e di retorica, queste stramaledette riunioni che hanno addosso due dita di muffa e tre di polvere, dove sempre gli stessi se la suonano e se la cantano rimembrando i tempi eroici di Coppi e Bartali, se questa brava gente una volta alzasse la testa dall’aragosta e dalle nostalgie potrebbe notare che per esempio alla maratona delle Dolomiti c’è un incredibile afflusso di manager, capitani d’industria, finanzieri, tycoon, attori, registi, politici, eccetera eccetera, tutti infoiati in una passione da ultrà. Chiedo, mi chiedo: è mai possibile che questi personaggi così autorevoli, danarosi e influenti, chiaramente convinti della bicicletta come nuovo mezzo di tendenza, non compaiano mai - che so - alla Milano-Sanremo o al Giro d’Italia? Ma è possibile che gente tanto preziosa, per la passione e anche per il futuribile impegno diretto nel nostro ambiente, nemmeno venga invitata, contattata, arpionata? Ma è possibile che alle nostre corse, le ultime rimaste, dobbiamo sempre rivedere le solite quattro facce tristi, tutte arciconvinte di contare moltissimo, e quando ci scappa il colpo di vita al massimo portiamo sulla linea di partenza e sul palco tv qualche subrettina un po’ baldracca?
Sono solo domande. Se mi provocano, ne posso sparare a raffica. Ad esempio: perché abbiamo abolito le punzonature, unico momento che portava i campioni in mezzo al popolo? Perché la federazione si butta a pesce, con smodato entusiasmo, sul neonato Giro di Padania, mentre si volta dall’altra parte quando le nostre corse più gloriose ad una ad una schiattano penosamente? Perchè non c’è un cane, in federazione, capace di prendersi la briga d’andare personalmente dai direttori di grandi giornali e grandi televisioni a spiegare che il ciclismo non è morto con Coppi e Bartali, come credono, ma esiste ancora? Cos’è, siamo così orgogliosi da non poterci permettere di chiedere aiuto?
Dio santo, volevo scrivere una rubrica e mi ritrovo a firmare un lenzuolo degno d’un convegno invernale. Qualcuno penserà che lo faccio perché ai convegni nessuno m’invita. Ma non è esattamente così. Il problema è che quando guardo il ciclismo di oggi mi si chiude una vena e mi parte la rabbia. Il presidente si fa prendere dal riso, io mi faccio prendere la mano. C’è tipo e tipo.
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