Scripta manent
La testa dura di Wadecki,
il cuore grande di Panizza
di Gian Paolo Porreca

Avevamo in mente di parlare della Corea del Sud e dell’Italia. Sentivamo il diritto-dovere di chiamarci - e chiamarvi - ad alta voce fuori del coro di un siffatto modo tele-mediatico di gestire lo sport, come avanspettacolo e business, come un perenne invito al Circolo della Banalità: «venghino, venghino, lorsignori...».
Volevamo deprecare le isterie di Trapattoni, quello sbattere il pugno contro il vetro, quel tirare calci alle bottigliette che ha fatto il (pessimo) giro del mondo... E censurare ancor più le cadute di stile del milieu del calcio e dei suoi cavalier serventi, pensiamo a quel giornalista di RaiUno (Carlo Paris, Dribbling del 18 giugno) che definiva in piena presunzione di giudizio “cretino” l’arbitro Moreno, pensiamo alla faziosità di Bulgarelli, pensiamo alla presenza diventata obbligatoria di Italo Cucci ai Tg di stato, ed ancor più alla passerella popolata di cattivo gusto dei Processi, come quello di Bruno Vespa, dove appare giusto chiedersi quale credibilità possano meritare certi palcoscenici quando trattano argomenti vitali come le pensioni e la sanità, se sono poi di così modesta qualità e di così scarsa obiettività quando trattano un argomento non vitale come il calcio...

Dopo esserci chiesto, di fronte a tante accuse stentoree ed indignate al mondo del calcio, al cospetto della voragine morale che sembra ormai aver inghiottito il football universale, perché nessuno dei Bravi Giornalisti che volevano fermare il Giro ed il ciclismo per il doping, hanno titolato «Fermate il Mondiale» o «Fermate il calcio» per l’impresentabilità di una storia intera, e perché nessuno, o quasi nessuno, teniamo da parte l’equilibrio encomiabile di Gianni Mura e Michele Serra, si è reso autobiograficamente conto di quale Male Endemico sia diventato il Fenomeno Calcio, che inquina il tessuto sociale e professionale, per cui ad esempio la moglie di Montella è di corsa giornalista e Simona Ventura lo è ancora di più..., bene, dopo esserci chiesto tutto questo, ci siamo resi conto che in realtà così avevamo già sottratto trenta righe al ciclismo! E che al cospetto di una sentenza sempre così manichea sugli spazi nelle nostre redazioni, «non c’è spazio per il cilcismo», stavamo facendo ancora una volta il gioco del calcio al potere... E toglievamo così trenta righe non meritate da Totti e da Vieri, ma innnazitutto demeritate dai loro clacquers, a due storie vive del ciclismo.

La prima storia è quella, incredibile, di Piotr Wadecki, il campione polacco della Domo-Farm Frites, coinvolto in una drammatica caduta a Sorrento, alla prima tappa della Tirreno-Adriatico di questa primavera. Ricordiamo la paurosa carambola, il tubo della bici di Salomone letteralmente spezzato dall’urto violentissimo con il casco di Wadecki: quel casco benedetto che salvava la vita al ciclista polacco, ma non poteva risparmiargli una grave frattura cranica e un delicato intervento neurochirurgico. Avevamo lasciato Wadecki ancora addormentato, in una stanza della Divisione di Neurochirurgia del Cardarelli, a Napoli, a metà marzo, chiedendoci se e quando sarebbe poi tornato al ciclismo. E ce lo troviamo, già a metà giugno, scalpitante, fra i primi della classifica generale, al Giro della Svizzera. È bellissimo pensare, molto semplicemente, a questa vicenda come ad un connubio esemplare di felice assistenza medica e di perfetta abnegazione agonistica. «Tornerò presto a correre, vedrà», come ci diceva il cognato che lo assisteva, «i Wadecki hanno la testa dura»...

La seconda storia, viva, più vicina, è quella appena finita di Vladimiro Panizza, morto un primo giorno di estate, a 57 anni. Una storia sì, viva, per come è vivo lo Stelvio, per come è vivo un certo ciclismo, per come sono vivi Jean Robic e Manuel Fuente, quegli scalatori minuti che alla figura del nostro Panizza più propriamente corrispondevano. Panizza, mai giovane, un burbero generoso, sempre maturo, 165 centimetri di alterigia e generosità, 18 Giri iniziati, record assoluto di partecipazioni, 19 anni di attività - dalla Vittadello, 1967, all’Ariostea, 1985 - non è un ricordo, ma è una presenza costante nel nostro ciclismo: è il Fedelissimo.

Elui, così piccolo, resta piantato proprio sulla vetta della montagna più alta: lo Stelvio, quando indossava la maglia rosa e nonostante una indomita difesa fu vinto dalla coppia Hinault-Bernaudeau. Ma ancor più in quel Giro del ’72, quando lui, Panizza da Fagnano Olona, diventava il minuscolo frangiflutti italiano nella disfida fra Merckx e gli spagnoli della Kas, Fuente, Galdos, Lopez Carrill... Panizza, per noi, contro tutti. Ci voleva un grande cuore, per il ciclismo di allora. Il cuore smisurato di Panizza, per sempre, per ammirazione e riguardo, detto «Miro». Quel cuore che lo sport professionistico, e forse lo stesso ciclismo di oggi, più non riconosce come virtù cardinale.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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