Il momento è speciale, e seducente è l’occasione di parteciparlo. Dunque il Tour de France ha detto a Ivan Basso di tornare a casa, glielo ha detto la vigilia della partenza, Basso è tornato a casa, la corsa gialla è partita, Basso è ripartito allenandosi subito (sin troppo serenamente, almeno secondo chi scrive queste righe: non ci sarebbe stato male un suo scazzo formidabile), e adesso si può persino pensare di vivere, nel ciclismo e di ciclismo o comunque col ciclismo, senza Tour de France. Partecipo la grande scoperta, la grande notizia in prima persona singolare, sperando che diventi prima persona plurale, molto plurale. E scrivo senza tenere conto di come questo Tour de France, privato al via di Basso e di altri corridori alti come Basso, è andato, perché mi pare che si possa tentare un ragionamento in assoluto.
Prima del primo giorno del mese di luglio dell’anno duemilasei non era concepibile un ciclismo senza Tour de France. Che si apprezzasse la bizzarra misticità, divenuta ormai forte miticità, del faticare al sole cercando di finire dentro gli interessi o almeno le attenzioni o almeno il voyeurismo di un mondo in vacanza; che si riconoscesse ai francesi la capacità straordinaria di presentare le loro cose, cosine e anche cosacce sempre come le migliori del mondo, e masochisticamente si soggiacesse volentieri a questa capacità, così come viaggiando la Francia, due pietre illuminate da luce gialla con brutte musiche da corte di re Sole diventano subito spettacolo della serie “son et lumiére” e ci fanno scordare le infinitamente più numerose e più valide bellezze artistiche dell’Italia; che ci annichilissero le cifre economiche, pubblicitarie, televisive, mediatiche della manifestazione, seguita in Giappone come negli Stati Uniti; che funzionasse anche per il Tour il modo di dire ma anche di pensare per cui Parigi è sempre Parigi, valido per il ciclismo come per il Moulin Rouge, caposaldo storico della nostra adolescenza, quando una tetta nuda arrivata d’Oltralpe bastava a farci delirare; che funzionasse anche nel ciclismo il mistero per cui il vino detto beaujolais nouveau è sublime e il chianti novello no, anche se è vero il contrario; che al suo primo apparire sulla scena politica di Francia Segolène Royale fosse subito stata considerata più affascinante non solo di Rosy Bindi, ma anche di Stefania Prestigiacomo; che una o tutte queste considerazioni insieme funzionassero, è comunque certo che pativamo il Tour de France come se il Giro d’Italia non fosse mai esistito, e lo seguivamo ogni anno con virginale entusiasmo come se il Giro d’Italia non fosse appena finito e non ci avesse riempiti d’amore corrisposto.
E invece siamo qui (sono qui, ma mi sento bene accompagnato), ci contiamo come dopo che il treno cu sui stiamo ha finito di deragliare, e ci siamo tutti, e stiamo bene, e pensiamo anche al prossimo Basso, anche al nuovo doping, e non è mitridatizzazione (anche se potremmo ormai permetterci di stare dentro il carapace del déjà-vu, ogni volta che il mostro chimico pascola e sgozza pecore nel ciclismo e non altrove, nel ciclismo e più che altrove), e nei riguardi delle novità sul doping giunteci dalla per troppi anni falsamente virginale terra di Spagna siamo persino più curiosi che allarmati, più divertiti che indignati. Niente Tour de France, niente brioches pirenaiche o croissants alpini, niente cicale del Midi, niente torre Eiffel e Champs-Elysées miraggi parigini che però ad un certo punto diventano palpabili il pomeriggio di una domenica di luglio. Il nostro pane nero, al massimo la nostra bruschetta e però ci sentiamo nutriti bene, sanamente ed austeramente bene come in convento. Miracolo?
Non sappiamo anzi non so bene il perché (sono stato presuntuoso ad allargare il mio io ad un noi che magari da taluni o da molti mi viene restituito con rabbia), ma si sopravvive anche ad un Tour che ti prende a schiaffi, e si ama il ciclismo come prima: il che è come continuare a credere, ad essere credente e praticante, anche se il duomo massimo del tuo culto non ti fa entrare per la più grande delle sue funzioni. Ho provato a sondarmi in questo atteggiamento, e l’ho fatto anche per iscritto, sulle pagine di un settimanale come Famiglia Cristiana, dove il ciclismo è amato e seguito per i suoi valori che tutti noi suoi innamorati speriamo siano inossidabili, ho provato a mettere per iscritto un perché che potrebbe anche essere quello di una sorta di nostra - di noi del mondo della bicicletta - acquisita superiorità morale: per cui sappiamo che c’è sempre un ciclismo che è grande sport, grande palestra di vita, grande festa di paese in quel paese che deve restare il nostro cuore, c’è perché sì, e non riescono a togliercelo anche se indubbiamente c’è un altro ciclismo brutto e cattivo, anche se usano per togliercelo addirittura il Tour de France.
P.s.Certo che fra l’Angelo Zomegnan, amico e capo del Giro d’Italia, il quale a corsa rosa avviata da poco ci partecipava il timore di tanti che per distrarre l’opinione pubblica italiana da calciopoli si approfittasse della gara in bicicletta per mandare in scena qualche show antidoping spettacolare e assorbente, e la Fifa cioè la casa madre del calcio mondiale che si è preoccupata che l’inchiesta sul doping nata in Spagna intorno al ciclismo potesse invadere anche il mondo del calcio, ci sta il classico anno luce, che poi è spesso una sorta di buio.
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