In alto, più in alto del Giro di Basso, nelle prime pagine dei giornali, è andata in scena da settimane la recita dell’Ovvio, ovvero del calcio italiano. Moggi, Giraudo, la Juve, Pairetto, Bergamo, gli arbitri di piazza e di regia, la GEA per i procuratori figli di papà, giornalisti e nazionali per modo di dire e di accordarsi, portieri e centrocampisti col vizio della velina o della melina per scommessa... Ma ci ha colpito particolarmente, in questo serraglio nauseabondo, un invito recepito in silenzio, lasciato correre forse per timore di eresia o di impopolarità, un concetto più volte espresso a sanzione punitiva e/o risolutiva: «basta con i figli di papà».
E ci può anche stare bene, per inciso, questa relativa morale, per noi che ben conosciamo i trucchi e gli inganni perpetrati, nel nome del cognome, ad esempio, nell’ambito universitario o in quello medico: carriere accelerate, in perenne corsia di sorpasso ed in eccesso di velocità non punita, comprati pure i vigilantes ed i probiviri, oltre il lecito ed il decente, per figli, mogli di primo letto ed amanti di secondo. Ma se la normalità del calcio si sposa bene - lontano dallo sport - con una amoralità
imperante di fondo propria della nostra società delle professioni, e merita di gran lunga questa chiamata di correo, lasciateci fuori il ciclismo nostro, per favore: e la sua diversità profana. Risparmiateci, di grazia, i figli.
L’ha visto forse Moggi, l’ha visto Guido Rossi, l’ha visto Guidolin, l’ha visto Cannavaro, l’ha visto Buffon, l’ha visto Giorgio Tosatti, allievo di Raschi, l’ha visto Francesco Borrelli, l’ha visto Lippi, l’ha visto al limite il presidente Prodi, quel ragazzo, anzi ormai ex-ragazzo belga «figlio di papà» piangere su un arrivo del Giro d’Italia? A Peschici, a 150 metri dal successo, Axel Merckx, latore di un siffatto nome, veniva raggiunto e superato da Pellizotti & C., ma restava in qualche modo primo sul traguardo allegorico del cuore. Quelle lacrime di un trentatreenne - di un giovane padre con il destino di restare nello sport un figlio per sempre -, ci hanno profondamente colpito e vorremmo trasmetterne il messaggio non effimero, in un tempo di valori placcati e truffaldini.
Lasciateci stare i figli di papà, dunque, se sono sinceri come il figlio di Merckx, - «questo è lo sport, non ce la facevo più, Pellizotti mi ha superato a doppia velocità» -, se non si ammantano della furbizia e del cinismo da tycoon e dei Porsche Cayenne dei rampolli del calcio maggiore, in sintonia con un passaggio da Grande Fratello o da Simona Ventura&Gene Gnocchi o da un talk-show a tutte l’ore.
Lasciateci i figli di papà, se sono figli di padri e madri come quelli del ciclismo, pur con il rispetto per quanti anche fra loro hanno sbagliato e semmai pagato. Se sono i figli di Njidam e Gavazzi, di Willy ed Eddy Planckaert, di Bertoglio e Pizzoferrato, di Schleck e Zoetemelk, di Van Impe e Vasseur, se sono i nipoti di Bugno e di Gimondi...
Lasciateci i figli di papà, infine, se al di là del conto in banca e della giacca&cravatta a tutte l’ore, avranno imparato dai padri il culto del dolore. E l’umiltà liberatoria del pianto.
Le lacrime di Axel, come quelle del padre Eddy, nel ’69, a Savona. Per una sconfitta diversa, certo. Ma per una eguale ed emblematica lezione - non solo ciclistica - di vita.
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