Gatti & Misfatti
Facce da fiction

di Cristiano Gatti

Ci eravamo visti la fiction su Coppi (e Bartali), ci siamo visti la fiction su Bartali (e Coppi), a quanto pare ci vedremo presto la fiction su Pantani. Tutto nel giro di poche stagioni televisive. Certo non è il caso di scomodare immagini enfatiche come “febbre per il ciclismo”, perché davvero non si tratta di questo, ma una semplicissima domanda - se abbiamo ancora voglia di ragionare - possiamo tranquillamente farcela. Io me la faccio. Questa: perché mai tanta passione, da parte di sceneggiatori e registi, per i miti della bicicletta?

Certo non mancano incursioni anche negli altri sport popolari. Dal Grande Torino a Ferrari, per citare i più famosi che mi vengono in mente, altri personaggi italiani hanno già ricevuto l’omaggio del teleromanzo storico (solo una domanda a latere: che aspettano a confezionare quella di Senna, in sè bellissima?). Però nessuno può negare che, in proporzione, il ciclismo sia molto frequentato dalle troupe. Detto questo, restiamo alla domanda: perché?

Sarebbe bello e utile che chi si sente in possesso di spiegazioni interessanti le fornisse alla pubblica opinione. tuttoBICI è qui per questo: come sempre, come un tavolo per dibattiti intelligenti. Io provo a rompere il ghiaccio, anche se premetto che la mia spiegazione non ha nulla di geniale. Dico solo questo: la fiction ha bisogno di una bella storia, piena di sentimenti e di emozioni, che permetta un facile passaggio al genere del romanzo e del fogliettone. E allora diciamolo apertamente: il ciclismo, da sempre, persino adesso che vive una sua inevitabile modernità, offre a piene mani tutto quanto serve. Non bisogna compiere grandi sforzi di fantasia, raccontando gli uomini e i fatti che corrono in bicicletta. Bastano loro. C’è il fascino eterno e indistruttibile del filone “lacrime&sangue”. C’è l’inossidabile parabola della grande sofferenza prima della grande gioia. Ci sono le passioni sincere come l’amicizia e come la fedeltà, ma anche le perversioni umane della carognata e dell’imbroglio. E poi gli scenari: mari e montagne, campagne e villaggi. In una parola, le storie del ciclismo - come sappiamo bene noi che le raccontiamo sui giornali - si portano dentro l’intero campionario del pianeta umano, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, incrociando sul filo dei trionfi e delle sconfitte tutti gli eterni ingredienti del vivere.
Caso mai, in attesa che qualcuno colga anche il fascino tutto particolare del grande e struggente duello tra Merckx e Gimondi, in attesa che quanto prima arrivi il polpettone sul mito di Armstrong (su, figuriamoci se gli americani si lasciano passare sotto al naso la storia di un tizio che batte il cancro e poi vince sette Tour de France, passando per il giallo di velenosi sospetti...), in attesa cioè delle prossime puntate, viene da chiedersi se anche in futuro il ciclismo riuscirà ancora a fornire ingredienti così genuini per prodotti così riusciti. Ce la farà il ciclismo post-moderno del livellamento, del tutti bravi, del tutti vincitori, ma delle sfuocate personalità?

Io penso che sarà molto dura. Restando agli ultimi tempi, Pantani è già fiction perché al mito sportivo ha aggiunto - purtroppo, maledizione - le tenebre della perdizione. Una commovente, incredibile, colossale vicenda umana ha letteralmente bruciato i tempi, riuscendo a diventare subito romanzo, pochissimo tempo dopo la conclusione. Ma da qui in avanti, ce ne vorrà. Per uscire dalla cronaca sportiva ed entrare nell’immaginazione degli sceneggiatori, non bastano le sole vittorie: bisogna lasciare una traccia profonda, nitida e indelebile, nella propria epoca. Ci si capisce subito: non basta vincere cinque Sanremo e cinque Roubaix. Bisogna intrecciarsi con i tempi, bisogna restare nella memoria delle famiglie. Diciamocelo francamente: guardandoci in giro, non si intravede granchè. Si fa prima a riproporre l’epopea di Girardengo e del suo amico malandrino. Al momento, l’unica fiction contemporanea che viene in mente è quella su Cunego e Simoni. Ma è pochino. Soprattutto per la pessima qualità degli sceneggiatori: Corti e Saronni. Fino a poco tempo fa raccontavano che i due erano tanto affiatati. Fiction di infimo livello: va bene lavorare di fantasia, ma qui eravamo nella fantascienza. Meglio gli sgangherati di “Incantesimo”.
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