Il Pistolero & Miguelon

di Giulia De Maio

In occasione della presentazione del Team Polti Kometa abbiamo avuto l’opportunità di incontrare due grandi campioni spagnoli, che per tuttoBICI hanno letto le carte alla stagione appena iniziata. Alberto Contador, che con la sua Fondazione aveva lanciato il progetto nel 2013 e da quest’anno con Ivan Basso ha riportato nel ciclismo uno sponsor che si era fatto conoscere grazie alle gesta dei propri corridori tra il 1983 e il 2000, e l’immenso Miguel Indurain, tra i pochissimi a poter vantare in carriera la doppietta Giro-Tour che Pogacar tenterà nel corso del 2024. Anno olimpico dai mille spunti che il Pistolero e Miguelón hanno sviscerato con noi, con la classe che li contraddistingue da sempre e ha fatto innamorare di loro i tifosi di tutto il mondo.
Partiamo dal ritorno di Polti in gruppo.
AC: «Per la crescita del nostro team rappresenta un salto di qualità notevole. L’azienda capitanata all’epoca da Franco e ora dalla figlia Francesca Pol­ti si riaffaccia in un ciclismo che è cambiato molto rispetto agli anni Novanta, ma che darà loro un ritorno di immagine ancora più internazionale. Ricordo le sfide al Tour di Miguel con Vi­ren­que e poi i successi di Bugno, Gotti, Leblanc, Abdoujaparov, Celesti­no e tan­ti altri che hanno scritto pagine im­portanti della storia del ciclismo in ma­glia Polti. Per quanto riguarda i corridori nel roster 2024 abbiamo giovani interessanti come Davide Piganzoli a cui daremo il tempo per crescere e ra­gazzi più esperti come Jonathan Re­stre­po e Matteo Fabbro che hanno vo­glia di rilanciarsi. Ho chiesto loro di essere professionali, di curare il dettaglio, di non avere paura di nessuno e di ricordare che tutti hanno mal di gambe. Dopo la prima vittoria ottenuta al Giro d’Italia nel 2021 da Lorenzo Fortuna­to, ho mantenuto la promessa di pedalare da Madrid a Milano, questa volta ho scommesso che se porteremo a casa due tappe della corsa rosa percorrerò il tratto Madrid, Milano, Budapest (in Ungheria è forte la presenza della valtellinese Kometa, ndr). Ho molta fiducia nei nostri ragazzi, vedremo se mi costringeranno a macinare 2.400 km».
MI: «Alberto, al Giro li inciterai o dirai loro di andare piano? (ride, ndr). Bat­tute a parte, è una buona notizia che un nome così importante rientri nel no­stro ambiente dopo 17 stagioni nel grande ciclismo. Di Polti ho ricordi piacevoli, o meglio, faticosi. Era una squadra ben strutturata, i cui atleti mi hanno fatto soffrire non poco durante la mia carriera. È stato bello ritrovarne alcuni a Milano in occasione del lancio del nuovo team, al di là delle battaglie in corsa è rimasto con tutti un bel legame. Il ciclismo della prima Polti era più europeo, un’azienda di famiglia appassionata poteva allestire una squadra di assoluto livello, ora per essere presenti nel World Tour servono multinazionali con interessi globali. La Ba­nesto, in cui ho corso dal 1990 al 1996 che aveva e ha interessi prettamente in Spagna, per esempio, non penso avrebbe lo stesso interesse a investire nel ciclismo di og­gi. È stato detto che i valori di Polti sono rispetto, sostenibilità, innovazione quindi riproporsi nel mondo bici è la normale conseguenza. Il ciclismo è lo sport più popolare, che avvicina appassionati e clienti come nessun altro».
Vi manca l’agonismo?
AC: «I primi due-tre anni sì, ora sinceramente no. La vita del corridore professionista è ricca di sacrifici, è bello nel post carriera lasciare spazio a una passione diversa per la bici, ad altre trasferte e viaggi. Quello che non mi manca per niente sono le cadute, che hanno a che fare con infortuni fisici ma anche con la testa. Oggi sono papà di due bambini e sicuramente se fossi ancora in gruppo tirerei di più i freni. Pedalo ancora pa­recchio, ma peso 7 chili in più e mi vedo meglio rispetto a quando dovevo essere sempre “tirato” al limite. La­vo­rando per Eurosport e per alcuni marchi tecnici seguo con grande interesse e costanza il ciclismo di oggi. Amo vedere in azione Pogacar, Vingegaard, Ro­glic, Van Aert, Van der Poel ed Evene­poel. Sono contento che Alaphilippe debutti al Giro, spero tornerà ai livelli di quando ha vinto due mondiali uno in fila all’altro. Mi aspetto una stagione bellissima».
MI: «Io pedalo decisamente meno di Alberto e mi basta una piccola salita per ricordami che di fatica ne ho già provata abbastanza. Ora non penso alla velocità ma a godermi le esperienze. In inverno, con il freddo, per esempio non esco perchè non mi piace. Quando il tempo a Olaz, nei dintorni di Pamplona, dove vivo, è piacevole pedalo con alcuni amici oppure anche da solo 2-3 volte a settimana, ma sempre e solo su strada. Il ciclismo resta la mia passione più grande. Ogni anno partecipo a 6-8 granfondo. Con Enervit in passato ero stato alla Maratona delle Dolomiti e qualche mese fa ho preso parte alla Nove Colli. Ho avuto l’occasione di pedalare sulle strade da cui partirà il Tour 2024. Davide Cassani (presidente dell’APT Emilia Romagna, ndr) mi ha illustrato le tappe del Grand Dé­part, sarà stupendo. Mi aspetto una battaglia avvincente tra Vingegaard, Pogacar, Evenepoel e tutti i big che si presenteranno al top della forma. Per quanto riguarda le competizioni, dopo la pandemia mi limito a seguire dal vivo quelle vicino a casa, tappe de La Vuelta a España e il Giro dei Paesi Baschi, per il resto mi tengo aggiornato tramite la stampa».
Chi era il vostro idolo da bambini?
AC: «Ne ho avuti due: Pantani e Arm­strong. La percezione che avevo di Lan­ce è cambiata quando ci ho corso fianco a fianco nella stessa squadra e sapete come andò (al Tour 2009 vinto da Alberto in maglia Astana su Andy Schleck e con il texano la tensione tra i due raggiunse l’apice, ndr), di Marco mi affascina tuttora la sua capacità di attaccare da lontano, il suo modo unico di correre, non aspettava semplicemente l’ultima salita per fare la differenza. Che dire di Miguel? È grazie a lui se ho scoperto il ciclismo e ho iniziato ad interessarmene. All’epoca giocavo a calcio come terzino destro, ma quando mio fratello Fran, che già gareggiava ha portato a casa le cassette dei suoi 5 Tour vinti, vedere le sue imprese mi ha dato la motivazione a salire in bici».
MI: «Mi fa piacere saperlo (sorride, ndr). Anche io ho seguito la tua carriera, ovviamente. Personalmente ho ini­zia­to a gareggiare a 11 anni con la ma­glia del Club Ciclista Villavès. Ricordo il premio per la prima vittoria come fosse ieri: un panino e una Fanta, ba­starono a farmi contento. Da giovane io ho sempre ammirato Bernard Hi­nault, con cui poi ho corso in gruppo per due stagioni. A proposito del Pi­rata comprendo e condivido le parole di Alberto. Marco l’ho trovato nel finale di carriera, in salita era micidiale, ho capito che dovevo sbrigarmi a vincere il quinto Tour consecutivo (impresa non riuscita nemmeno al cannibale Merckx, a Hinault o Anquetil; Miguel sarà superato nella storia della corsa francese solo qualche anno dopo dallo statunitense Lance Armstrong, rimosso successivamente dall’albo d’oro per le note questioni legate al doping, ndr)».
Avreste voluto correre contro i talenti di oggi?
AC: «Sì, come sarebbe stato bello confrontarmi con campioni che hanno preceduto la mia epoca come Indurain e Pantani ma ognuno ha il suo tempo. I numeri dei grandi leader non penso siano cambiati tanto, quello che in questo momento è cresciuto è il valore me­dio generale in gruppo. I capitani di 10-15-20 anni fa andavano già in ritiro a lungo prima dei grandi appuntamenti, i loro compagni però no. Ora invece tutte le squadre al completo si presentano al via della prima corsa con 35-40 giorni di ritiro, questo fa sì che il livello medio del gruppo sia più alto e la velocità prima di arrivare all’ultima salita è più elevata rispetto al passato. Dopo, nello scontro finale tra i big, non noto troppo differenze rispetto ai miei tempi, anche se tutto si evolve, dall’alimentazione ai materiali. Pogacar e Vingegaard mi piacciono entrambi: del primo mi riconosco nell’imprevedibilità in corsa, del secondo mi ritrovo nella professionalità, nella meticolosità e nella serietà con cui prepara il Tour de France. Pure io facevo come lui. Wout van Aert è spettacolo puro, sarà bello vederlo al de­butto al Giro. Due anni fa al Tour ha dato più spettacolo del vincitore finale Vingegaard, facendo cose mai viste: ha primeggiato in vo­­lata, a cronometro e in salita. Sof­frirà sulle pendenze delle salite italiane quindi non lo immagino in lotta per la classifica generale ma di certo non si tirerà indietro. Per me lui non ha limiti».
MI: «Il bello delle sfide è mettersi alla prova con i più forti quindi in un ipotetico mondo parallelo sarebbe bello confrontarmi con i campioni di altre epoche con caratteristiche simili alle mie. Non mi tirerei indietro, ma ovviamente nella realtà è solo un gioco a parole. Io sono felice di aver vissuto il mio mo­mento e di essermi messo alla prova con avversari e amici, alcuni dei quali ho rivisto con piacere alla presentazione della Polti Kometa. C’è chi ora dirige il Giro d’Italia (il riferimento è a Stefano Allocchio, ndr), chi è impegnato in una squadra come Alberto Volpi, chi in altri ruoli ancora. Tra gli italiani con cui ho rivaleggiato di più ci sono Gianni Bugno e Claudio Chiappucci, ma il vostro Paese ha sfornato tanti atleti di livello come Mario Cipollini e Beppe Guerini».
Pogacar riuscirà a vincere Giro e Tour nello stesso anno? Gli ultimi ad esserci riusciti sono stati Miguel Indurain nel 1993 e Marco Pantani nel 1998.
AC: «Io ho firmato 7 grandi giri (i Giri d’Italia 2008 e 2015, i Tour de France 2007 e 2009, la Vuelta 2008, 2012, 2014, ndr) senza riuscirci, ma sono convinto che Tadej, e quando vorrà an­che Vingegaard, possano farcela. Nel ciclismo moderno la doppietta è possibile, di sicuro è un traguardo realistico per gli ultimi due vincitori della Gran­de Boucle. Per inseguirla serve avere una squadra fortissima sia al Giro che al Tour e la UAE Emirates del 2024 ha questa capacità. Nel 2015, quando vinsi il Giro, avevo contro l’Astana di Aru e Landa e a me capitava di restare da solo, senza compagni a 50 km dal traguardo. Alla fine terminai molto stanco e al Tour pagai, arrivando 5°. Per di più Tadej è più giovane di me, ha 25 anni mentre io ne avevo 32 quando sono andato a caccia dell’accoppiata. Il più grande pericolo per lui però sarà Vingegaard perché ha dimostrato una regolarità tremenda al Tour. Se riuscisse nell’accoppiata, sono sicuro andrà anche alla Vuelta. Il Giro non è mai facile, neanche se il secondo arriva a 7’ di distacco, ma Tadej ha tutto per farlo suo. Oltre ad essere molto forte ha l’istinto e la corsa rosa è quella in cui più di tutte si possono fare i “gran­di numeri”, percorso e meteo favoriscono le imprese».
MI: «Quest’anno vivremo sfide interessanti, ci sono squadre forti e giovani di talento. La doppietta è possibile ma bisogna gestire bene le forze, non si può pensare di essere competitivi sia alle classiche che poi a tutti i grandi giri. Bisogna rinunciare agli obiettivi di primavera, ma è una rinuncia ben ripagata. Chi centra la doppietta scrive la storia. Potrebbero riuscirci sia Vin­ge­gaard che Pogacar, certo il Giro deve essere, come pare essere quello di quest’anno, non durissimo. Prima o poi an­che Roglic potrebbe tentarci, scarto Evenepoel: corridore fantastico, ma non regge mentalmente tre settimane. Per puntare a un traguardo ambizioso come quello che si è prefissato Pogacar, bisogna selezionare gli obiettivi, lo fa­cevo anche io. Quanto è cambiato però il ciclismo da quando correvo io... Ora è molto più globale e ci sono Nazionali che hanno possibilità diverse rispetto alle nostre. Sia in Spagna che in Italia il movimento purtroppo è in difficoltà, ci sono pochi team e i nostri corridori so­no costretti ad andare all’estero. Oltre a Movistar, da noi ci sono poche aziende interessate a investire e in un movimento così mondiale, senza budget non si va lontano. Pri­ma si correva sostanzialmente solo in Fran­cia, Italia, Spagna e Belgio, ora ovunque».
Al Tour per la prima volta vedremo Po­ga­car, Vingegaard, Roglic ed Evene­poel, per di più in 4 squadre diverse.
AC: «Sarà interessante vedere Roglic con una maglia differente rispetto a Vin­ge­gaard e Kuss, è una bella notizia avere i migliori che si corrono contro. Primoz, dopo aver vinto tre volte la Vuel­ta e il Giro lo scorso anno, deve provare il tutto per tutto in Francia, per me è il terzo favorito dietro Jonas e Tadej. Avrà un team competitivo al suo fianco. Appena dopo metto Evenepoel che però è alla prima esperienza alla Grande Boucle e ha il tempo dalla sua, ha più margini di crescita degli altri e se non dovesse andare bene non sarà un dramma, avrà altre occasioni per rifarsi. Immagino che Remco si metterà ad­dosso la massima pressione ma se lui non vince, non sarà una sconfitta, a differenza degli altri nominati prima».
MI: «Fare pronostici è difficile, il cambio di data per le Olimpiadi potrà incidere però saranno sempre i più forti a giocarsi il successo finale. Sinceramen­te non conosco bene il percorso, non so quanta crono c’è. Mi chiedete se scambierei il “mio” ci­clismo con quello di oggi? No perché oggi è tutto più veloce e pensato per la tv, mentre io sono sempre stato un atleta di fondo, che emergeva sui percorsi lunghi. Non ho mai digerito salite con pendenze al 25-27% come Mor­ti­rolo e Zoncolan, tuttora preferisco salite lunghe e meno arcigne come Se­strie­re e Gavia. Oggi non si trovano più lunghe cronometro come quelle in cui io riuscivo a fare la differenza, ma va bene così. È giusto godersi lo spettacolo che ci offrono i giovani campioni di adesso. Il mio preferito? Mi piaceva mol­to Tom Dumou­lin, ma ha smesso. De­vo cercarne in gruppo un altro, grande e forte in cui immedesimarmi. In realtà ce ne sono diversi: Wout van Aert, che va forte su tutti i terreni, l’attuale campione del mondo Mathieu van der Poel, per non parlare di Tadej Pogacar, che riesce a conciliare classiche e grandi giri. C’è l’imbarazzo della scelta e lo spettacolo è assicurato. Lo sport in generale è cambiato molto: le manifestazioni de­vono essere più corte e accattivanti, è anacronistico trasmettere 6-7 ore di diretta, lo show deve essere rapido. Da spettatore è bello, ma da corridore non avrebbe fatto per me».
Il Team Ineos non domina più come negli scorsi anni.
AC: «Al Tour mi aspetto che sia della partita Carlos Rodriguez, 5° un anno fa (4° se non fosse caduto), che è cresciuto nella Fundación Contador e già da ragazzino aveva valori da World Tour. Per me è un chiaro candidato al podio. Per quan­to riguarda Egan Bernal spero possa tornare ai livelli pre-incidente di gennaio 2022, sono curioso di vedere come inizierà la stagione e gli auguro di poter tornare a lottare per vincere un grande giro. Questo sarà l’anno in cui, in un senso o nell’altro, avrà le risposte che cerca».
MI: «Io mi permetto di esprimere un parere su un uomo Ineos su cui voi italiani, giu­stamente, fate parecchio affidamento, vale a dire Filippo Ganna. Ha dimostrato di essere un pistard eccezionale. Ha un motore spaziale a crono, ma sta cambiando pelle. Può essere un’idea, però prima pensi a Pa­ri­gi. L’oro olimpico è per sempre e se lo ottieni in Francia… Quest’anno i Giochi Olim­pici determinano i programmi di tanti corridori. Ai miei tem­pi la caccia ai cinque cerchi non aveva il valore che ha oggi perché a lungo i professionisti non vi hanno preso par­te. La mia prima partecipazione fu nel 1996 ad Atlanta (vinse l’oro nella cronometro, ndr) ed era considerata solo come una corsa in più nella stagione, ora invece è giustamente la più importante».
Il momento più memorabile della vostre ricche carriere?
AC: «Ho due giorni che hanno marcato la mia vita. Il primo nel 2005, dopo l’ictus cerebrale che soffrii l’anno precedente tornai a correre al Tour Down Under in Australia dopo 10 mesi lontano dalle corse e vinsi la tappa regina. Quel successo per me vale più di quelli che ho ottenuto nei grandi giri perché ha rappresentato la mia rinascita. Il secondo risale alla mia ultima tappa di montagna in carriera, quando domai l’Angliru alla Vuelta 2017. Ricordo le sensazioni provate la sera prima, la mattina a colazione. Sapevo che dovevo fare del mio meglio perché stavo per salutare il ci­clismo. L’atleta ri­corda sempre la sua ultima competizione, può incappare in una caduta o in un ri­tiro: aver chiuso a braccia alzate mi lascia in pace e mi dà fiducia tuttora nel momento in cui devo prendere decisioni importanti».
MI: «Io scelgo la mia prima vittoria al Tour de France (in carriera il navarro ha vinto cinque Tour de France consecutivi dal 1991 al 1995, come nessun altro mai, ma anche due Giri d’Italia in accoppiata con le edizioni 1992 e ’93 della Grande Boucle, il mondiale a cronometro del 1995 e nella stessa specialità l’oro olimpico di Atlanta 1996, ndr)».
Per cosa vale la pena ancora oggi pedalare?
AC: «L’importante è essere felice e che le persone che amo stiano bene. Nella mia vita ho delle nuove sfide, che mi motivano, a partire dalla squadra Polti Kometa e il marchio di bici Aurum Bi­kes. Una volta mi alzavo al mattino stimolato dall’idea di vincere il Giro, il Tour e la Vuelta, oggi mi impegno nel far crescere un brand nato da zero e che desidero si affermi nel mercato per le sue qualità, indipendentemente dai nomi di Al­berto Contador e Ivan Bas­so che l’hanno creato».
MI: «Io non ho sogni particolari. A me ba­sta godermi la vita, stare in famiglia e di­ver­tir­mi in sella, più pia­no di una volta. Per la­voro prendo parte ad eventi e pubblicità, e con tre figli c’è sempre qualcosa da fare. Il maggiore che si chiama Miguel co­me me e ha corso an­che lui, ha aper­to l’anno scor­so un negozio di bici a Ma­iorca; Jon vi­ve a Ma­drid e ha a che fare con i nu­meri, lavora nel mon­do dell’economia; Ana, la più piccola che vive an­cora con me e mia moglie Marisa, si è lau­reata in biochimica e sta cer­cando lavoro in questo settore».
Se aveste a disposizione una bacchetta magica, per cosa la utilizzereste?
AC: «Per la pace. Viviamo in un mon­do che invece di migliorare continua a fare passi indietro. Dovremmo risolvere i problemi politici parlando in modo civile, al contrario ci si massacra in guerre ad ogni latitudine. Le notizie che riceviamo destano preoccupazione, spesso sono costretto a spegnere la tv perchè ai miei bambini (Luca ha 5 anni, Martina è nata lo scorso aprile, ndr) non voglio mostrare certa violenza, non la si può comprendere né spiegare».
MI: «Quoto in pieno. Vorrei un clima più sereno per tutti e più bici a circolare per le nostre strade. Il ciclismo purtroppo è uno sport rischioso. Fin dai primi allenamenti sui 26 chilometri tra Villava ed Elloriz, mia mamma me lo diceva sempre: “fai attenzione”».
Per chiudere, mandate un pensiero ai vo­stri tifosi.
AC: «Dalle pagine di tuttoBICI invio un saluto enorme al pubblico italiano. Vi porto nel cuore, ogni volta che tor­no in Italia mi sento come a casa e la testa si affolla di bei ricordi legati al Gi­­ro d’Italia. Vi ringrazio per tutto l’amore che mi avete trasmesso e vi man­do un grande abbraccio».
MI: «Anche io sono molto legato all’Italia. Oltre alle tante corse disputate, ho sempre avuto numerosi sponsor del vostro Paese come Pinarello, Vit­to­ria, Enervit, Campagnolo, Sidi e Selle Italia. Ormai sono quasi 30 anni che ho smesso di gareggiare ma i tifosi si ri­cordano di me e io di loro, con affetto».

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