di Giulia De Maio
La primavera è la sua stagione preferita. Vi state immaginando il primo sole a scaldare l’atmosfera e gli uccellini che cantano sulle piante in fiore? Sbagliato. La “sua” primavera è fatta di pietre, polvere, stradine strette del Nord e, spesso, cielo grigio e vento battente. Una gran faticaccia, che rappresenta però anche l’inseguimento del sogno di una vita.
Maria Giulia Confalonieri è cresciuta praticando ciclocross, pista e strada. Ha modellato il suo carattere con la multidisciplina e dall’operosa Brianza è arrivata fino al tetto del mondo, cnquistato nel 2011 da junior nella corsa a punti.
Abbandonato il fuoristrada, si è affermata negli anni tra le atlete più complete e generose in gruppo, spesso e volentieri pedina fondamentale della Nazionale Italiana che innumerevoli gioie ha regalato al medagliere azzurro, diretta prima da Edoardo Salvoldi e più di recente da Paolo Sangalli.
La trentenne di Seregno da quest’anno è in forza alla Uno-X ed è ancora più riconoscibile in gruppo con il kit giallo-rosso della formazione norvegese. La sua ambizione è alzare le braccia al cielo, possibilmente nelle prossime settimane, in una delle Classiche che più le hanno rapito il cuore. La dedica sarebbe già pronta: per nonna Maria che è volata in cielo il mese scorso e, siamo pronti a scommetterci, tifa per lei anche da lassù.
La stagione è iniziata con buoni piazzamenti all’UAE Tour e la seconda posizione al GP Le Samyn des Dames, tra Marta Bastianelli e Vittoria Guazzini.
«Sì, le prime corse con la nuova squadra sono andata bene. Le Samyn è stata la classica gara all’attacco, la tipica sfida belga: siamo partite un po’ “a tutta” perché il chilometraggio era abbastanza breve e c’è stata bagarre negli ultimi 30 chilometri, con le squadre delle velociste che cercavano di controllare la situazione per garantire alle loro punte l’arrivo in volata. Negli ultimi tratti di pavé si sono verificati scatti e controscatti, sull’ultimo Marta ha attaccato e io sono riuscita a seguirla. Mancava veramente poco all’arrivo, ce la siamo giocata lei ed io. È stato bello posare su un podio interamente tricolore, anche se ognuna di noi punta sempre al gradino più alto».
Anche quel giorno sei stata molto generosa, non pensi di dover essere un pizzico più egoista per centrare quella vittoria su strada che hai spesso sfiorato, ma che non sei ancora riuscita a far tua?
«Sì. L’anno scorso mi sono aggiudicata la classifica generale del Tour de la Semois ma mi manca il successo secco. Spesso ho lavorato in supporto alle mie compagne o, quando in passato facevo parte di squadre più piccole, ho potuto giocarmi le mie opportunità, però nel ciclismo moderno senza il supporto di un team ben strutturato o si è delle fuoriclasse o è veramente difficile vincere. Negli ultimi anni il mio livello si è alzato e ho dimostrato che riesco regolarmente ad essere protagonista nelle gare che mi si addicono. Con il passaggio in Uno-X avrò un supporto maggiore da parte della squadra e spero di potermi togliere presto questo sassolino dalla scarpa».
Terza alla Gand Wevelgem di un anno fa, qual è la tua corsa dei sogni?
«Senza dubbio il Giro delle Fiandre. Quest’anno la mia primavera sarà al 100% incentrata sulle classiche del Belgio. Mi sono preparata bene e punto a vincerne una. Dopo la Dwaars door Vlaanderen, ho in programma la Ronde, quindi la Parigi-Roubaix e l’Amstel Gold Race. Il mio calendario a seguire prevede due gare di un giorno in Bretagna a inizio maggio ed altre due di nuovo in Belgio il week end successivo, Ride London a fine maggio e poi altura per preparare l’estate».
Fino all’anno scorso correvi con la Ceratizit WNT. Nella formazione tedesca ti trovavi molto bene, tanto che hai consigliato a tua cugina Alice Maria Arzuffi di firmare un contratto con la tua ex squadra. Cosa ti ha spinto a cambiare?
«Ho vissuto tre belle stagioni in Ceratizit, non mi è mai mancato nulla e c’era anche un buon affiatamento con le compagne. Mi è dispiaciuto lasciare, ma ormai il ciclomercato è davvero molto attivo e interessante a livello economico anche per noi donne. Il progetto che mi è stato proposto da Uno-X mi ha convinto a compiere questo passo. Puntano principalmente a far crescere le giovani scandinave e, in quest’ottica, hanno ingaggiato delle atlete con un po’ più d’esperienza, tipo la sottoscritta, per introdurle al mondo del ciclismo professionistico. Mi sono subito sentita parte del gruppo e spero che insieme faremo grandi cose. Oltre a ricoprire il ruolo di “chioccia” con l’olandese Anouska Koster e le danesi Julie Norman Leth e Amelie Diderisksen, avrò più spazio. Il ruolo di capitana, almeno su certi percorsi, mi sarà affidato di frequente. Sulla strada alla fine parlano le gambe, quindi bisogna essere sempre performanti e farsi trovare pronti a ogni appuntamento. È quello che ho sempre cercato di fare».
Il 30 marzo hai compiuto 30 anni. Lo scorso ottobre ti sei sposata con Mattia. Che progetti hai per il futuro?
«A conciliare la vita da ciclista professionista con quella privata ci si abitua anno dopo anno. Ormai sono 10 anni che il ciclismo è la mia professione e Mattia c’è sempre stato, mi ha conosciuto che già correvo, quindi è stata una cosa abbastanza naturale. Sto vivendo il periodo della “maturità” ciclistica. Non penso di avere ancora tanti anni davanti per potermi esprimere al meglio quindi sto cercando di farne buon uso. Il compleanno non l’ho ancora festeggiato come si deve perché ero lontana da casa per affrontare la campagna del Nord. Che regalo vorrei ricevere? Da ciclista l’aggiunta al calendario di una classica italiana che ci manca, come Il Lombardia o la Sanremo. Personalmente vorrei riuscire a timbrare il cartellino il più presto possibile, ma questo regalo devo conquistarmelo da sola».
Il ciclismo femminile continua a crescere, che differenze hai notato nel corso della tua carriera?
«Il movimento di oggi non è lo stesso che ho trovato io nel 2013, quando sono passata Élite: è decisamente più professionale. Non siamo certamente ancora a livello degli uomini però sempre più ragazze hanno la possibilità di svolgere il ciclismo come mestiere. Al mio primo anno nella massima categoria avevo tante compagne che erano costrette a relegare la bici al ruolo di secondo lavoro perché per mantenersi dovevano fare altro. Adesso non è più così. Tutte le atlete del World Tour e la maggior parte di quelle che militano in squadre Continental di un certo livello, tolta magari qualche studentessa, hanno il ciclismo come primo e unico lavoro. Questo ha aiutato molto a farci crescere. Fondamentale è stata negli ultimi anni anche l’esposizione mediatica: ci sono tante cose ancora che vanno sistemate ma siamo sulla strada giusta».
Cosa manca per raggiungere l’equità tanto auspicata?
«Grazie alla visibilità che la tv offre alle nostre gare siamo riuscite ad attrarre sponsor e a far capire che il ciclismo femminile è interessante. La riforma del World Tour ha accelerato un po’ troppo i tempi: ora come ora è difficile trovare 15-16 ragazze competitive in ogni team della massima serie, ma ci arriveremo. Personalmente mi auguro che continuino ad esserci squadre come la Valcar o la Valkenburg Park Hotel che possano far crescere le Under 23 perché non è per niente facile per le più giovani, che a differenza degli uomini non hanno questa categoria intermedia, per maturare con calma. Fare il grande salto direttamente dalla categoria junior, nella quale le gare sono molto brevi e hai pochi confronti internazionali all’anno, al mondo del World Tour a 19 anni rischia di far finire qualche carriera prima del dovuto. I risultati non sono immediati, non si ottengono dall’oggi al domani: sono le società di base che riescono veramente a mantenere vivo il ciclismo».