Nibali, il maestro bambino

di Giulia De Maio

Gli anni passano ma Vin­cenzo Nibali ha lo stesso entusiasmo di quel bambino che scoprì il ciclismo guardando le videocassette di papà Salvatore. Oltre 30 anni dopo le prime pedalate mosse at­torno a casa, ama giocare e questo è il suo segreto per restare giovane e allo stesso tempo fare assolutamente sul serio quando si tratta di due ruote. La bicicletta lo ha «tirato fuori dai guai», lo ha fatto diventare l’uomo e il campione che è oggi. Da 17 anni rappresenta il suo lavoro, da sempre la sua passione più grande. Lo abbiamo in­contrato in occasione del primo raduno della Astana Qazaqstan Team 2022 e, ancora una volta, ci ha stupito. Tra tanti giovanotti lo Squalo è quello che ha passato più tempo con la dirigenza, i tecnici, lo staff, i medici, gli sponsor, quello che ha rivolto più domande al preparatore e al biomeccanico, quello che ha posto maggiore cura nelle prove dei materiali, non perché obbligato dal suo “nome” ma perchè è curioso, ha ancora voglia di imparare e non lasciare nulla al caso. Si stupisce che ci sia chi ha un po’ di timore reverenziale nell’avvicinarlo, chiede di non mettergli troppe pressioni, si stupisce quando scopre che non abbiamo il suo numero personale (e ce lo dà senza problemi, quasi scusandosene per non averlo fatto prima). Vincenzo è così, forse an­cora non si è reso conto del tutto di es­sere Nibali. Uno dei più grandi campioni di ciclismo. Gli piacerebbe un futuro da tester, vista la sua “fissa” per la tecnica e la meccanica, ma prima ha un presente da corridore ancora tutto da vivere in maglia celeste.
La Astana per annunciare il tuo ritorno ha usato l’estratto di una canzone del 1995 della boy band inglese Take That: I just want you back for good ovvero Vo­glio soltanto che torni per sempre.
«Intanto ho firmato per un anno e ne sono felice. Per me è un’emozione ri­trovare tante persone con cui ho raggiunto alcuni dei miei risultati più im­portanti e con le quali so com’è lavorare. Ho corso con questo gruppo tra il 2013 e 2016 conquistando il Tour de France nel 2014, due Giri d’Italia (2013 e 2016) e 22 successi totali, tra cui corse di alto livello come il Lom­bar­dia, la Tirreno-Adriatico e il Cam­pio­nato Italiano. Dopo cinque anni tra Bahrain Merida e Trek-Segafredo mi sembra di tornare a casa, anche se mol­to è cambiato. In ammiraglia ritrovo Martinelli, Shefer e Zanini, ma anche diesse come Bruno Cenghialta e figure che prima mancavano, come la nutrizionista, preziosa con le sue diete so­prattutto in questo periodo in cui ci muoviamo meno».
È stata una scelta più di cuore che di portafoglio?
«Diciamo che sono arrivato vicinissimo alla BikeExchange, poi Vino­kou­rov mi ha chiamato e ci ho messo un attimo a decidere. Il giorno dopo gli au­stra­liani mi hanno ricontattato ma or­mai era tardi. Torno dove so di stare bene, tra persone con le quali ci capiamo al volo. Conosco la maggior parte della dirigenza e dello staff, lo dovevo a Federico Borselli e Gabriele Tosello (scherza riferendosi all’autista del bus e al meccanico a cui è legato da lunga amicizia, ndr). Mio fratello Antonio do­veva restare alla Trek, Ciccone lo voleva, ma alla fine non hanno trovato la quadra e anche per lui si è presentata l’occasione di venire in Astana. È difficile parlare ora di aspettative, così come dei piani per la prossima stagione. Prima di tutto vorrei godermela al massimo. Voglio vivere il momento, questo credo sarà il mio punto di forza. Ho firmato appositamente per un anno per non avere lo stress di essere obbligato ad andare avanti per forza».
Nei giorni scorsi ti sei sottoposto ad un’operazione al naso: permettimi la battuta, che aria si respira al primo raduno?
«Molto buona. Soffro di allergia, i turbinati ne risentono, così ogni tanto serve un ritocco. Mi sono sottoposto a un piccolo intervento a livello ambulatoriale che mi permette di respirare me­glio. A questo gruppo mi legano tantissimi momenti belli e anche qualcuno meno piacevole. Ricordo con piacere le volte che sono stato in Kazaki­stan dopo i Grandi Giri vinti: fu molto gratificante vedere cartelloni pubblicitari ovunque nel Paese con le mie foto e pedalare con migliaia di tifosi. Quali traguardi potremo raggiungere insieme d’ora in poi lo scopriremo solo vivendo. Ci vuole tempo per stilare i programmi, ne parleremo più avanti (la squadra dovrebbe esordire alla Va­lenciana e Vincenzo «potrebbe fare qualcosa di diverso rispetto alla solita routine» confida Martinelli, ndr). Adesso voglio pedalare con la mente libera, nel futuro prossimo farò le mie valutazioni. Non so se resterò in Astana o meno, se prolungherò la mia carriera da corridore o ne comincerò un’altra, di sicuro resterò in questo ambiente».
Di certo potrai svolgere un ruolo importante per i giovani come Samuele Batti­stella, per cui sei già il campione di riferimento.
«Sì. Sono contento di avere a che fare con ragazzi che fino a qualche anno fa mi incitavano davanti alla tv e ora corrono con me con grandi aspirazioni. Avverto una responsabilità molto importante come loro guida, so che mi osservano. Quando sono passato professionista alla Fassa Bortolo l’uomo di punta era Alessandro Petacchi, con cui però ho corso poco. Io cercavo di rubare il mestiere guardando Kim Kirchen e Juan Antonio Flecha, in più avevo due consiglieri preziosi come Massimo Co­dol e Roberto Petito. Mi spiace sia andato via dall’Astana Matteo Sobrero, davvero un ragazzo interessante. Bat­tistella l’ho seguito in questi anni, è cresciuto tanto e bene, ha chiuso il 2021 con una bella vittoria e il morale alto in vista della prossima stagione. I giovani rivolgono un sacco di domande sugli allenamenti, io rispondo in base alla mia esperienza e mi fa piacere dar loro qualche consiglio. Come si affrontano i ritiri e si superano i momenti difficili sono tra i temi più discussi. La parte dell’allenatore spetta ad altri e ognuno ha le sue caratteristiche fisiche, ma i corridori sono accomunati dalle sensazioni, quindi mi capita di raccontare come mi sono trovato io con questo e quell’altro interval training».
Dopo tutto quello che hai vinto e con i giovani che incalzano, chi te lo fa fare di insistere?
«Sostanzialmente il divertimento e la passione che avverto ancora per questo sport. Arriverà anche per me il momento di fermarmi, ma finchè posso svolgere questo lavoro al meglio delle mie possibilità e con piacere non vedo perchè dovrei smettere. Quando mi alzo al mattino so che mi aspettano giornate dure di allenamento ma non mi pesano. Il ciclismo è cambiato moltissimo negli ultimi anni e i giovani bruciano sempre di più le tappe. I campioni della generazione precedente alla mia vincevano il primo grande giro attorno ai 28 anni, io ho conquistato la Vuelta a 25 anni, ora si anticipano i tempi di altri 3 anni. I neoprof arrivano al salto di categoria con una preparazione fisica diversa, già da junior lavorano in modo specifico, ancora di più da dilettanti e così quando arrivano al professionismo sono già pronti a dire la lo­ro».
Era meglio prima o adesso?
«A lungo andare se sarà un bene o un male non lo so, di sicuro il fisico ha bi­sogno di un certo tempo di adattamento, il metabolismo e i muscoli anno dopo anno si adattano agli sforzi a cui li sottoponiamo e per questo bisogna lavorare in modo diverso. Io sono contento di essere cresciuto gradualmente e penso sia questa la chiave per una lunga carriera. Le stagioni che uno può vivere al top sono 6-7, poi bisogna ri­programmare le ambizioni e i programmi perché è sempre più complicato sopportare anni “a tutta” dall’inizio alla fine del calendario agonistico. È tutto sempre più veloce e stressante, anche per questo in futuro mi immagino carriere più corte. Ci sono tanti giovani precoci, ma anche tanti altri che hanno bisogno di più attenzioni, di essere coccolati, di avere il loro tempo per sbocciare. Un esempio è Filippo Ganna, i primi anni da prof ha faticato un bel po’ e ora è tra gli atleti top al mondo e difficilmente sbaglia un ap­puntamento. Sicuramente l’ambiente che ci circonda è fondamentale e incide anche sulle prestazioni».
E tu sei migliorato o peggiorato?
«Anno dopo anno sono riuscito a raggiungere qualcosa in più, ma come det­to in precedenza crescendo d’età bisogna cambiare le ambizioni, focalizzare meglio gli obiettivi e centellinare le for­ze».
Da quando sei padre, tua moglie Rachele dice che sei diventato più razionale, più riflessivo, più pacato. Confermi?
«Sì e aggiungo: per fortuna. Da bambino ero pestifero, da allora ho fatto sicuramente un salto di qualità non indifferente. Lanciavo i fichi d’India alle persone che passavano per strada, ero iperattivo, da collegio. La bici mi ha condizionato in senso buono, mi ha permesso di sfogare energia e nervosismo, in qualche modo mi ha tirato anche fuori dai guai. È facile a 16-17 anni prendere una via sbagliata».
Tua figlia Emma Vittoria che bambina è?
«Lei è coccolona, pigra e al tempo stesso sportiva. La bici le piace, ma preferisce il tennis. Si diverte, va bene a scuola (ha 7 anni, frequenta la seconda elementare, ndr), mi rende orgoglioso. Del mondo in cui sta crescendo non sono preoccupato, se non per la situazione che stiamo vivendo in questo periodo per colpa del covid. Per fortuna i bambini vivono con più leggerezza rispetto a noi adulti».
Quando eri un bambino il ciclismo femminile non era la realtà che è oggi.
«Negli ultimi tempi è davvero esploso. C’è stata una grande svolta, non a caso abbiamo assistito alla prima Roubaix femminile e nel 2022 vivremo il ritorno del Tour de France. Le atlete se lo me­ri­tano».
Ti vedresti in futuro a dirigere una formazione di ragazze?
«No, non potrei mai fare il ds né tra gli uo­mini né tra le donne. Di sicuro vo­glio restare nell’ambiente, ma non co­me tecnico perché vorrebbe dire star via da casa ancora di più che da corridore e avere un sacco di responsabilità. Non mi vedo proprio in ammiraglia, ma amo mettere le mani sulla bici, smontarla e rimontarla, ho una vera passione per gli aspetti tecnici, mi pia­ce essere sul pezzo sulle novità. Magari diventerò tester di materiali, ma è presto per pensarci».
Intanto con tua moglie dal 2015 siete impegnati con gli juniores del Team Nibali.
«Svolgiamo un’attività completa con ragazzi che corrono dal Nord al Sud Italia su strada e, con qualcuno che si dedica alla multidisciplina, anche nella mtb e nel ciclocross. Vogliamo trasmettere l’idea che lo sport fa bene, soprattutto praticato da adolescenti e ancor di più al Sud, dove a farsi largo in qualunque campo si fa un pochino più fatica. Se riescono a emergere con lo sport sono felice, ma quello che suggerisco sempre a tutti è di non mollare gli stu­di».
Dai un consiglio a un ragazzo che sogna una carriera come la tua.
«Se mi guardo indietro penso ai sacrifici che ho dovuto affrontare, sono stati davvero tanti. Abbandonare la mia ter­ra per fare quello che faccio oggi è sta­to il più doloroso. Ci vuole grandissima determinazione, da lì parte tutto».
Il 14 novembre compirai 37 anni. Che regalo vorresti farti?
«Un anno fa ho ricevuto una bellissima scatola di Lego, la Batmobile del 1989, in edizione limitata, che sto ancora completando perché ha davvero tanti pezzi. Giocare è un bel passatempo, non chiedo nulla se non di continuarlo a fare. Eccezionalmente quest’anno sono riuscito a concedermi un po’ di vacanze “normali” in agosto, nella mia Sicilia, così a novembre mi riposerò a casa, a Lugano: Emma non può saltare la scuola e le lezioni di tennis. A 37 anni sono ancora qui, pronto per una nuova stagione, non mi servono regali materiali per ritenermi fortunato».
Quando Bugno smise di correre, disse che era stanco di sentirsi un vecchio corridore e non vedeva l’ora di essere finalmente un giovane uomo.
«Io non mi sento diviso tra l’atleta esperto e l’uomo che ha ancora una vi­ta davanti perché mi ritaglio i miei spazi, resto un eterno Peter Pan. Cre­scere per certi aspetti è troppo brutto quindi resto attaccato al mio lato giocherellone e un po’ matto di quando ero bambino».
Cosa ti senti di dire oggi al giovane uomo Vincenzo e al “vecchio” ciclista Nibali?
«Di mettersi sempre in gioco, qualunque sia la sfida».
La fine della nostra chiacchierata coincide con il momento in cui il quartetto azzurro dell’inseguimento vince il mondiale sul velodromo di Roubaix. Con­clusa la mia raffica di domande, la palla passa a Vincenzo che mi chiede: “Da Tokyo sai se hanno cambiato i materiali?”. Rispondo onestamente che non lo so, ma gli mostro alcune foto di Ganna e compagni in azione sulle loro fiammanti Pinarello dorate. Lui le analizza con scrupolo, riconosce i cuscinetti delle ruote in materiale ceramico, mi spiega i dettagli più tecnici. Con l’entusiasmo di un bambino al primo giorno di scuola, anche se ormai ha l’esperienza di un maestro.

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