Rapporti & Relazioni

Un furto nel deserto

di Gian Paolo Ormezzano

Il ciclismo tutto deve pensare non tanto alla greve durezza del presente malato di covid, quanto al postpandemia. E dicendo ciclismo tutto intendo ov­via­mente dire anche i tifosi che troppo spesso e persino volentieri assumono e vivono la parte dei beneficiati co­munque dal loro sport be­ne­amato, contenti anche soltanto di vedere sfrecciare per un attimo i corridori o di gu­stare via televisione le immagini della corsa, con i protagonisti ridotti ad ologrammi. Nel pieno della sua fioritura geografica mondiale, nel vivo dell’acquisizione di etnie nuove e della conquista di molte tribù del pianeta don­na, nella felice forza di una tecnologia che si è riversata sulla bicicletta, nei vasti consensi da parte dell’opinione pubblica verso un veicolo inteso come strumento di sport, di lavoro, di turismo vacanziero rispettoso dell’ecologia disprezzata e ferita dal mondo dei motori, in­somma nel pieno del suo ri­nascimento moderno a far seguito al romanticismo su due ruote dello scorso millennio, il ciclismo deve temere l’implosione delle sue vir­tù, delle sue qualità, diciamo anche delle sue fortune.

Deve temere, in parole tanto più povere quanto più si riferiscono ad enormi ricchezze, la dislocazione nei paesi ricchi, soprattutto quelli arabi del petrolio: dove presto sconceranno vistosamente e d’un colpo, un colpo solo ma quasi mortifero, il football con la Coppa del Mondo 2022 in Qatar, ottenuta con un mercimonio praticamente ufficiale dei voti. Una manifestazione senza pubblico lo­cale, con presenza altamente elitaria di gente riccona arrivata da lontano, attesa da stadi enormi tirati su da operai-schiavi e gonfiati di co­stosa aria condizionata. Il ci­clismo si è già spostato, per competizioni surreali, nel de­serto, pensando di sostituire con le competizioni gli allenamenti invernali di un tempo ormai antico nella provvida comoda riviera me­diterranea o - cosa assai più recente - in isole lontane in mezzo a mari salgariani. E di guadagnare nel cambio.

Gare invernali nel de­serto, allora, con sole garantito, ottimi rimborsi delle spese di trasferta. E a poche ore di aereo. E co­munque ricchi premi e persino la prospettiva di trovare per le squadre, come peraltro già accaduto, sponsor arabi ultradanarosi (chiedere a Nibali/Bahrein e a Sa­ron­ni/Emirati Arabi Uniti). Quel­lo degli sceicchi, negli Emirati e vasti dintorni, non è un assalto di tipo cinese, con i soldi che traboccano e vengono spostati su altri pianeti economici, tipo quello calcistico, però spostati in loco, cioè dove il calcio si gio­­ca. I cinesi non vogliono molte squadre nostre in tournée dalle loro parti, per partite poco credibili, vogliono casomai mandare i loro magnati, col timbro del partito comunista cinese, a stravolgere i mercati pallonari esteri, comprando quello che c’è di meglio non per trasportarlo all’interno della Grande Muraglia, ma per sfruttarlo nei posti dove è nato e cresciuto, fra le genti che lo amano.

Il ciclismo corre invece il rischio di vedere presto un Tour de France sulle sabbie degli emiri (che forse la corsa automobilistica Pa­ri­gi-Dakar dopo trent’anni in Africa e quindici in Suda­me­ri­ca, non ha finito per essere disputata, nelle ultime due edizioni, nel deserto saudita?), un Giro d’Italia che si di­pana fra Israele e Qatar. Con le strade europee sempre più intasate dalla motorizzazione, con le autostrade degli Usa poco propizie al ci­clismo, con il Sudamerica che ha problemi economici tragici e che sulle sue strade vede scarpinare i pellegrini della miseria che cercano di salire al Nord.

La dislocazione delle ga­re è una minaccia autentica, Per fortuna - massì - che il deserto per tanti mesi dell’anno è impraticabile per eccesso di calura. Ma intanto, e siamo ormai in primavera, ci sorbiamo ancora le immagini di un ciclismo da covid costante, nel senso di arrivi in cui non c’è nessuno a festeggiare i  pedalatori, e non ci sono neanche le miss scosciate, ci sono in cambio (?!) emiri in vesti bianche e facce da padroni del mondo. Sempre meglio, penserà qualcuno, di uno stadio calcistico vuoto da cui arrivano le voci di grossi personaggi che si scambiano in­sulti intanto che progettano un calcio tutto show stellare e niente  tifo tradizionale, un calcio asettico, solo per la te­levisione, e insomma sbattuto in un suo deserto senza sabbia.

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