Rapporti&Relazioni

I COMPAGNI DI VIAGGIO

di Gian Paolo Ormezzano

Continua ma non si conclude (colpa di chi l’ha letta e mi ha invitato ad ampliarla) la rassegna personale di celebri giornalisti, o comunque personaggi legati alla stampa, patiti o amici del ciclismo, da me conosciuti e frequentati e accompagnati e go­duti e subìti. Sempre con il massimo rispetto per la loro passione, e pazienza se con qualche riserva per l’avversione di taluni al congiuntivo.

Giuseppe Ambrosini. L’avvocato, il decano, il demiurgo, il direttore (dei Giri e della rosea), per me an­che il compagno di lavoro e di viaggio in un paio di Giri d’’Italia, lui collaboratore esimio di Tutto­sport io poco più che giovane di studio del giornalismo e in particolare del ciclismo, lui in un Giro (1963) persino commissario straordinario della corsa quando il ciclismo professionistico vide la rivolta della Lega contro la Federazione, con due pedalatori in maglia tricolore - Fontana vs Mealli - e una giuria d’emergenza che proprio ad Ambrosini faceva capo e viaggiava (verso Roma, ovviamente a tappe, Roma dove il Coni avrebbe imposto la pace) appunto sulla nostra auto. E lui era un uomo solo al co­mando di tutti. Ecco, di Ambro­si­ni ricordo tanti aiuti, tanti consigli, tanta gentilezza, tanto repente af­fetto che ricambiai e tante bistecche. Sì, per strada decideva lui se e quando e dove sostare per mangiare, privilegiando (boh?!) i ristoranti che si raccomandavano da lontano, con sulla porta la sagoma grande di un cuoco in cartone. Or­di­nava quasi sempre, come me, una bistecca fiorentina, ne mangiava due pezzetti, la smistava a me che intanto avevo già finito la mia. Gli devo anche memorabili giornate nella sua Cesena, a parlare di ciclismo nel suo bunker, un capanno di quelli per la pesca trasportato sulla collina di Settecrociari. In corsa compitava continuamente su un taccuino: numeri e numeri. La sua ossessione era la media, se bas­sa si arrabbiava. Non voleva mai vedere i ciclisti (“ne ho visti sin troppi quando stavo sull’ammiraglia della direzione del Giro”), irriverentemente gli dicevo che se per caso la media bassa era colpa di un dinosauro sdraiato sulla strada noi non lo avremmo saputo e mi rispondeva che la media era una cosa seria, il dinosauro una mia fantasia.
Mario Fossati. Il migliore di tutti, ma non voleva saperlo. Era devoto a Gianni Brera, al Tour preparava il suo arrivo che era poi una sorta di avvento, in genere dopo la pri­ma settimana. Mi voleva bene, mi chiedeva per tempo se volevo ave­re il posto a tavola a fianco di Gian­ni per la sua prima cena la sera della sua prima tappa. Io lo facevo parlare anche di alpinismo e di cavalli, altre due sue passioni. Un giorno, a Parigi, lo tirai indietro all’ultimissimo istante, stava scendendo da un marciapiede e un pullman lo avrebbe travolto. Mi disse: “Ti devo la vita, ma come faccio a saldare il debito?”. Gli ri­sposi che andava bene così, non avrei cercato di morire io onde per­mettere a lui di salvarmi e sdebitarsi.
Crio Verratti. Caposervizio dello sport al Corrierone, attore protagonista in un film sul Corsaro Ne­ro, lui olimpionico di scherma a Berlino 1936, personaggione. Al Giro era riveritissimo e collezionava inviti a cena. Arrivava alla fine per il dessert, quando magari c’era la distribuzione di regalini ai giornalisti, riusciva in una sera a “co­prire” tre fine-cena, spronando l’autista. Scrissi di cotante imprese su Tuttosport, senza fare nome e co­gnome, un pezzo di colore intitolato alla “volpe del dessert” (Rom­mel, maresciallone di Hitler in Nordafrica, era stato definito “la volpe del deserto”). Lesse, non mi disse nulla. Si schiantò con l’auto, andammo con alcuni colleghi all’ospedale di Latisana per dare il sangue di cui necessitava, pregavo per lui mentre mi infilavano l’ago nella vena.
Gianni Melidoni. Caposervizio del Messaggero, si concedeva Giro e Tour, via dalla redazione, come una vacanza. Mi ha sempre chiamato fratello e ho ricambiato. Gli devo molto, qui gli offro il ricordo quel giorno - aspettavamo, scesi dalle auto, i corridori - in cui Verratti, notoriamente economo spinto, gli porse una scatoletta di carne e gli disse: “Non mi piace, forse è andata a male, la vuoi tu?”.
Riccardo Cassero. Caposervizio del Mattino, napoletanissimo, de­voto a Gino Palumbo che lo aveva portato da ragazzino al Giro di Campania. Mio amicissimo, ha fatto con me alcuni Giri per studiare quanto ero pazzo. Una volta si portò come autista Nicola di Solofra che era miliardario e seguiva la tappa in Ferrari. Mezza carovana impazzì di curiosità. Nessuno mi ha mai dato del “chiattone” (grassone) con tanto affetto come lui.
Giovanni Mosca. Inviato specialissimo del Corrierone, mandava via telefono le sue vignette di costume anche dal Giro. Lo adoravo perché dispensatore di humour (aveva fondato con altri Candido), un giorno al Tour che sconfinava in Spagna stavo sulla sua auto, avevamo comprato dell’assenzio, superalcolico vietato in Francia, per col­leghi transalpini che ci avevano garantito doganieri indifferenti al nostro passaggio su auto targata Italia. Stavamo per rientrare in Francia, mi prese un po’ di paura: “E se ci scoprono?”. Era entrato nell’auto un farfallone, lui lo av­volse in un fazzoletto, al “rien à déclarer?” del doganiere rispose: “viande de papillon,”, carne di farfalla, e aprì il fazzoletto. Il doganiere ci mandò allegramente al dia­volo e l’assenzio venne regolarmente recapitato.

(2 - continua: e non dite poi che non vi avevamo avvertiti)

Prossimamente non-solo-Italia: Brera, Roghi, Carlin, Torriani, God­det, Lévitan, Blondin, Chany, Miguel Utrillo.

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