Nelle Fiandre con Bettini: «Un ciclismo tutto nuovo, ma...»

di Pietro Illarietti

Paolo Bettini non ha certo bisogno di presentazioni. Nel mondo del ciclismo pochi hanno saputo vincere quanto lui nelle gare in linea. Dall’Olimpiade, al doppio mondiale per passare alle Liegi e ai Lombardia. Ci fermiamo qui per non dilungarci troppo, perché di palmares ce ne sarebbe parecchio altro. Difficile riassumere il passato e allora è giusto godersi il suo presente, in una giornata trascorsa assieme tra chilometri, fango, pietre e tante chiacchiere in quel delle Fiandre, a Audenaerdt, dove è stata testata la nuova collezione Sportful.
Il Grillo di oggi sembra defilato dal ciclismo, nel suo mondo, ritirato nella campagna toscana, ma qualche incursione nel gruppo favorita dai suoi im­pegni lavorativi, come in questa oc­casione, la fa ancora.
Viso rilassato, sorriso largo e qualche linea del benessere celata dentro i capi tecnici. Approfittiamo della piacevole situazione per scambiare con lui qualche parola al termine di un’escursione nella campagna belga gelida e assolata. Entrati in un bistrot, con gli occhiali ap­pannati e la faccia che scotta, cerchiamo un angolo dove sederci e parlare. Riposto lo smartphone - il Betto è attivissimo su Instagram e Facebook - si concentra sulla nostra intervista.
Paolo con tutto quello che hai vinto sembra che lo sport italiano non ti coinvolga per quello che hai dato da atleta?
«È vero, ma credo sia una questione di cultura sportiva. Fabian Cancellara mi dice sempre che lui in Svizzera è considerato un dio. Forse in Italia siamo abituati ai tanti successi sportivi. Ad oggi abbiamo ancora 11 campioni del mondo su strada: da Ercole Baldini in poi.. Adorni, Basso, Moser, Saronni, Argentin, Fondriest, Bugno, Cipollini, Ballan».
Hai vissuto il grande cambiamento del ciclismo moderno.
«Sì, quando ho iniziato io nel 1998, ad esempio, è arrivato l’uso del powermeter. Solo dopo 4-5 anni ho capito il reale potenziale dello strumento».
Vista la tua grande esperienza, come vedi questi strumenti usati sui giovani?
«Il powermeter lo abolirei, in certe categorie non lo vorrei proprio vedere. Ad esempio stiamo discutendo sulla validità della categoria junior a livello internazionale. A quell’età devono pensare allo studio e non all’allenamento scientifico. Non voglio andare a guardare alle categorie inferiori. Attual­men­te stiamo andando ad ottimizzare precocemente e troppo la prestazione, li­miamo sui dettagli e in questo processo solo alcuni fenomeni si salvano. Faccio un nome come Remco Evene­poel, ma il resto lo perdiamo. Non ha senso vedere corridori così giovani magrissimi e già tanto attenti all’alimentazione».
Tu non sei arrivato al professionismo pronto..
«È vero.. Non sono arrivato pronto e nemmeno predestinato. Ero etichettato come quello che non aveva voglia di allenarsi. Chi però è venuto ad allenarsi sulle mie strade si è ricreduto. Chiedete a Davide Bramati e Luca Paolini. Tradotto in altre parole e riallacciandomi a quanto detto prima, non va bene imporre le tabelle agli atleti. Un preparatore deve entrare prima nel­la tua testa e capire chi sei e dove vivi. Io ero a Cecina, da solo con tre cicloamatori ad accompagnarmi. Sulle salite tornavo indietro e li aspettavo per non scoraggiarli. Personalmente dopo 4 ore e mezzo avevo già fatto tanto. Ad esempio il gruppo dei bergamaschi si ritrovava e uscivano in 12. Altre condizioni... La mia forma mentis era quella. Non potevo fare stage. Mi esaurivano. Avevo bisogno di arrivare ad una condizione minima per potermi salvare alle gare. Poi crescevo e facevo anche 80 giorni di corse».
C’è voluto del tempo per conoscerti?
«Certo, i primi due anni mi sono serviti pure a questo. Nel 1997 e 1998 prendevo l’auto e facevo ottanta minuti di strada per andare ad allenarmi con Michele Bartoli a Lucca. Partenza alle 7, rifacevo colazione alle 8.20 con lui e poi via per sei ore. Crescendo ho capito che per me quelle giornate erano dannose e il giorno dopo non uscivo nemmeno in bici. Era comunque una opportunità. Da una parte ero con un grande campione, ma dall’altra mi finivo. In quelle giornate ho imparato un mestiere. Ho costruito il mio fisico e il mio personaggio. Credo che uno come Luca Guercilena possa confermare che io avevo bisogno di essere ascoltato per riuscire ad ottimizzare il lavoro. Da lì abbiamo fatto la differenza. Per preparare una Sanremo non mi servivano otto ore di bici, ma dovevo costruire un volume di lavoro».
Come facevi a costruire il fondo?
«Credo che dalla sesta ora di gara in su ci sia poco da inventare. O ce l’hai o non ce l’hai. Voglio però ricordare che ad inizio carriera ho dovuto affrontare due grossi problemi: la distanza e le crisi di fame. Prima ancora, da dilettante, correvo disordinatamente e mi spegnevo ai 150 km. Insomma, grazie al lavoro svolto negli anni, ho trasformato i punti deboli nella mia forza. All’inizio avevo paura dei chilometri e per questo motivo mi sono specializzato. Una volta trovato il mio equilibrio il gioco era fatto. Mangiare ogni 20 minuti e andare forte sulla distanza. Eppure io sei ore in allenamento non le avevo mai fatte».
Quando hai capito che stavi per farcela?
«Con la Liegi del 2000. Dopo la vittoria Gabrie­le Sola, addetto stampa di Ma­pei, entrò in camera con un pacco di giornali e me li mise sul letto. Altri tem­pi. Per misurare la portata dell’impresa dovevi aspettare il giorno dopo. Voglio ricordare anche un altro aneddoto. Nel 1998 Michele vinse la sua seconda Liegi. Sulla strada del ritorno gli dissi che volevo tornare in Belgio per vincerla pure io.  Ecco quella mattina dell’aprile 2000 il sogno si era realizzato. Da lì ho capito che dovevo provare a vincere tutto. Il quel periodo è cambiato l’equilibrio in squadra e il rapporto con i compagni. Non ero più il gregario di qualcuno. Ero Paolo. Mi ero responsabilizzato».
Questo l’inzio, quando hai capito che era arrivata la fine?
«Alle 14.10 del 27 settembre 2008. Ero sul letto a Solbiate, all’Hotel le Robinie prima del mondiale e in TV c’era pure l’orario. Giorni prima avevo trovato in valigia un disegno di mia figlia fatto prima della Vuelta. Sopra c’era scritto. Babbo ti voglio bene, non andare più in bici. Era finita».
Nella tua carriera sei passato anche dall’esperienza Alonso.
«Fernando mi ha contattato nel 2014. Sapevo che lui andava in bicicletta, era preparato e aveva una grande passione. Conosceva logiche di squadra e il personale dei vari staff. Mi spiega il progetto e gli do la mia di­sponibilità. Ar­rivati a maggio però ho iniziato ad ave­re pau­ra. Mi ri­cor­davo l’esperienza Sony Eric­sson con Fer­retti. Ad oggi non la prendo come un’esperienza negativa. Mi ha aperto a logiche nuove».
Cosa non è andato?
«Non era l’anno buono. Lui doveva pensare anche a trovare la nuova squadra per affrontare il campionato mondiale. Ad agosto e fino al GP di Monza non aveva ancora la macchina su cui correre la stagione seguente. Chi doveva lavorare per il team ciclistico non lo ha fatto».
Quali sono le cose belle che ti sono rimaste ?
«Mi sono confrontato con il mondo della Formula 1, a livello di competenze, tecnologia e strumenti. Il progetto non era quello di fare la squadra, ma di portare un modo nuovo di lavorare. Quello che era la telemetria, oggi in piccola parte lo fa Velon. È solo una piccola porzione di quello che possiamo sviluppare. Un po’ come la tecnologia in mano ai militari e quella dei civili».
Non sono passati molti anni dal tuo ciclismo, ma questo mondo si è ancora evoluto.
«Sì, è vero. Parlando con i miei amici che ci lavorano, mi dicono che non ci capirei più nulla perché da 10 anni a questa parte è cambiato tutto. Ad esem­pio, ora anche il diesse non fa più molte cose che faceva. In ammiraglia ci sono due direttori, uno guida e uno fa la strategia. Tutte le figure sono certificate. Mi dicono che per ogni gara si apre un gruppo whatsapp. Per comodità o per velocizzare, ma è differente dai miei tempi. Do­po cena stavamo assieme, 3-4 squadre a parlare. Un cazzeggio creativo, uti­le per conoscersi, ma ora si vive in ca­mera».
Abbiamo assistito pure all’evoluzione dei materiali.
«È vero, forse l’abbigliamento è quello che è migliorato maggiormente. Se penso ai miei 12 anni di professionismo, mi accorgo non c’è stata l’evoluzione che abbiamo visto in questi ultimi 10 anni. E prima di presentare una linea si fanno studi e molti test. È il bello della ricerca».
Oggi è tutto cambiato e siamo arrivati alle tabelle individuali.

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