Scripta manent

IL NOME DI VAUCHER

di Gian Paolo Porreca

Sappiamo come finisce, come è finito, non sappiamo bene come sia co­minciata questa storia di amore per il ciclismo e i suoi eroi, o i suoi nomi.
Certo, la distanza di allora - anni ’50, anni ’60, quando tutto ebbe inizio -, da­gli even­ti, con le notizie che si ascoltavano a stento per ra­dio e si leggevano il giorno dopo sui quotidiani e molto meglio una settimana successiva, sul Ci­clismo Illustrato, poniamo, creava una miracolosa piattaforma di scambio sentimentale, un limbo, se non una astanteria di or­dini di arrivo e classifiche, da ro­vesciare a proprio piacimento, un territorio neutro ep­pure intimo dove la fantasia correva senza freni, liberamente.
Oggi, che la realtà ha altre cadenze, con una rapidità so­cial e mediatica ammantata puntualmente di ve­rità assolute un giorno e disconosciute immantinente il giorno dopo... Og­gi, che una personale versione delle cose per la vita e il mondo, con la scomparsa recente di mia ma­dre, si ammaina definitivamente, mi restano pu­re in cuore, senza più qual­cuno che possa aiutarmi a trovare una soluzione, due domande almeno.

La prima, se vogliamo più banale, è dove mai tu - parlo a mia madre - na­scondessi la chia­ve pesante di ferro che serviva ad aprire il portone di legno pesante della casa di campagna, dove riposava di notte al sicuro la mia biciclettina. E la mia di­sperazione inutile, sveglio con l’alba e il gallo - era sempre estate al­lora -, a restare lì senza po­ter entrare in  quello spa­zio sacro. Dove na­scondevate mai quella chiave? E io che smaniavo, avevo un bel nome in­fatti da indossare, per un giro su sentieri e tratturi, mi sarei chiamato per quel­la tappa del Tour e della vita bambina quel giorno Pierre Everaert, un francese della truppa di An­que­til, un po’ malinconico ed un po’ misterioso. (Viveva un dramma, in quel Tour del ’60, Eve­raert, ma l’avrei saputo dopo).

Ma se il fardello di quella chiave pe­sante, custodita (me lo avreste un giorno adolescente confessato ) in un anfratto del pollaio, per tenere a ba­da le mie frenesie di fuga, bene o ma­le ha poi avuto una “chiave” di lettura, alla se­conda domanda risposte non ne avrò, e non ne ho avuto mai.
Perché mai, ad un certo punto della mia infanzia, sempre ciclisticamente co­niugata, ho preso l’abitudine di addormentarmi, pronunciando il nome “Vaucher”, un passista el­vetico modesto? Ne ho ricercato tracce con più at­tenzione l’altro giorno, dopo la fine di mia madre, e ho avuto conferma che un campione non era, né tantomeno una figura particolare, certo secondo in coppia con Rolf Graf, dietro Baldini - Coppi nel Baracchi  fatale del ’57, quello dei 4 secondi minimi di gap all’arrivo, ma co­sa mai altro, qua­le ri­svolto di fascino poteva suggerire, chissà. Perché, in­vece di chiamare una gov­ernante o anche mia madre, a cui non posso più chiederlo, cercavo il so­gno facendomi compagnia, confidandomi, parlando, con Vaucher? Dal nome di battesimo altero, ben diverso dal modesto de­stino agonistico, si chiamava infatti Alcide.

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