Conti: «La mia favola rosa»

di Giulia De Maio

Tirare su quella cerniera e sentire sulla pelle un brivido perché stai indossando una maglia che rappresenta un simbolo per la storia del tuo Paese e dello sport che hai sempre amato. È questa l’emozione che resta a Valerio Conti dopo un Giro d’Italia corso da protagonista.
Il ventiseienne romano ha vissuto una settimana in maglia rosa, 7 giorni indimenticabili, un terzo di Giro da numero 1 e, ora che la corsa si è conclusa, la ripercorre con noi. E lo fa solo dopo una bella cena a base di carne e vino rosso con la fidanzata Michela. Più che meritata.
Cosa ti resta del Giro 102?
«Indossare la maglia rosa è un’emozione davvero forte, mette i brividi. Ve­de­re per casa la bici rosa che ha realizzato per me il grande Ernesto Colnago, i calzini e i guantini di questo colore speciale che la squadra mi ha regalato mi ricorda che è successo per davvero, non è stato un sogno ma realtà. Devo un grazie a tutta la UAE Emirates e a ciascuno dei miei compagni. Ulissi, Po­lanc, Marcato, Consonni e Bohli, ci ten­go a nominarli tutti. Se non si fossero battuti per me, non sarei stato in testa alla classifica così a lungo. I ventun giorni del Giro mi hanno dato più consapevolezza in me stesso. La passione della gente è incredibile, nelle edizioni passate sentivo le urla dei tifosi per la maglia rosa, ma non ci facevo troppo caso perché ero focalizzato sulla mia corsa. Quando senti che chiamano continuamente il tuo nome, allora apri gli occhi su quanto è importante il Giro in Italia».
Tornato a casa, cosa ti sei concesso?
«Vivo a Fiume, oggi chiamata Rijeka, in Croazia, terra di cui mi sono innamorato dopo una vacanza, ma prima di rientrare alla mia attuale base sono pas­sato in Valpolicella, da Michela. Ci siamo conosciuti al Palio del Recioto nel 2014, le è sempre piaciuto il ciclismo, dopo quella gara mi ha aggiunto su facebook e, tra un messaggio e un incontro, tutto è inziato. Stiamo assieme da due anni. Dopo il ritiro forzato al termine della diciassettesima tappa a causa di una infiammazione al soprassella, ho trascorso qualche giorno con le persone a me più vicine e giocato con Zoe, il mio cane (una femmina Pinscher, ndr)».
Nonostante una vita da giramondo, non dimentichi le tue origini.
«Assolutamente. Sono orgoglioso di es­­sere stato il primo romano a indossare la maglia rosa. In una città co­me Roma è difficile di­ventare ciclisti professionisti. È complicato allenarsi, bi­sogna uscire dalla città. Io parto dal Pre­ne­stino e va­do verso Fra­sca­ti, ver­so Ti­voli, verso Zagarolo. Faccio 10 chilometri “cittadini” e non ho problemi perché le bu­che le ho memorizzate tutte e so come schivarle. Capisco quan­to sia difficile per un papà invogliare il fi­glio alla bici in una città così trafficata. Nel mio caso c’è voluto l’impulso della famiglia, che è “ciclistica” da decenni. Pe­rò, dai, vedo che a Roma qualche strada piano piano la stanno rifacendo. Speriamo. Quando torno dai miei, mi piace passeggiare in via del Corso, ma anche fa­re un giro a Piazza del Popolo e Pon­te Mil­vio. Se voglio rilassarmi va­do al Terminillo».
In famiglia saranno impazziti di gioia.
«Papà Franco è una persona di po­che parole, super semplice, era contentissimo. Ha vinto un Giro d’I­ta­lia dei dilettanti. Poi ha fatto l’operaio, oggi è in pensione. La sera che ho preso la maglia rosa è an­dato al bar a offrire da bere. È stato un pa­dre giusto, da ex corridore non mi ha mai stressato con il ciclismo. Ci confrontiamo sui percorsi, ma finisce lì. Mia madre Grazia, un passato da parrucchiera e un presente da casalinga, quasi piangeva: “Fi­glio mio, la maglia, non ci cre­do!”. È stato bello sentirli felici. Ho respirato ciclismo dalla nascita, anche se a me è sempre piaciuto anche il calcio. So­no tifosissimo della Roma. Quan­do posso, vado in Curva Sud all’Olimpico. Da bam­bino giocavo sulla fascia destra, sono stato alla Giardinetti e alla Valle Mar­tella, due squadre romane, ma alla fine ho scelto la bicicletta».
La tua prima bici?
«Era una Bortolotto. Avevo 13 anni e giocavo a calcio, ma sentivo un richiamo dentro di me. A pallone ero forte e mio papà voleva che continuassi lì, pe­rò un giorno per non andare all’allenamento cominciai a girare intorno al ta­volo e a casa si arresero. Me la regalò mio zio Noé (ciclista professionista an­che lui, scomparso nel 2015, ndr). Ha incrociato Fausto Coppi sul viale del tramonto, alla Bianchi nel 1958, e ha vinto una Coppa Bernocchi. Quan­do capita, mi fermo a guardare i filmati d’epoca su Raisport, la notte, cercandolo nelle immagini in bianco e nero. Mi sarebbe piaciuto correre ai tempi an­tichi, di cui ho sentito tanti racconti. Coppi aveva una classe immensa, e polmoni e gambe eccezionali, era fatto per stare in bici. Tornando a me, in bici gareggiai per la prima volta in Toscana, dalle parti di Empoli: arrivai decimo, ero arrabbiato nero. Da ragazzo correvo per la Guazzolini Coratti, una squadra di Roma».
Chi è stato il tuo campione di riferimento?
«Alberto Contador, per la classe e l’inventiva, ma da bambino tifavo per Mar­co Pantani. Continuo a rivedere i video del Pirata perché mi danno la carica. Correre in bicicletta è spettacolare. Del ciclismo amo tutto, la maglia rosa è la cosa più bella che possa capitare a un corridore, almeno a un italiano. Risalendo verso nord mi sono reso con­to che il ciclismo è più sentito che al centro-sud da dove arrivo io. Spero con tutto il cuore che anche dalle mie parti le persone capiscano quanto questo sport sia stupendo. Io vengo dal calcio, ma non ho dubbi a dire che non c’è niente di meglio della bicicletta, che regala emozioni impagabili».
Altre passioni?
«La pesca, vado ai laghetti artificiali, prendo trote e a volte, storioni. Un la­ghetto è a Ponte di Nona, vicino a casa mia. Vado matto per i film di Carlo Verdone. Ricevere una sua telefonata in diretta tv al Processo alla tappa è stato surreale. I suoi film li ho visti 60-70 volte l’uno, li so a memoria, mai mi sarei aspettato che parlasse con me. I miei preferiti? Al primo posto metto “Bianco rosso e Verdone”, il massimo, lo rivedrei all’infinito. Carlo è strepitoso e con lui recita un simbolo della ro­manità, l’indimenticabile Sora Lella (nome d’arte di Elena Fabrizi, sorella di Aldo, grande attore del Novecento, ndr). Medaglia d’argento per “C’era un cinese in coma” del 2000: memorabile la scena dell’incendio della Porsche. È un film che ti fa capire come non ci si debba fidare troppo delle persone quando si raggiunge il successo, è qualcosa che forse potrebbe riguardarmi, ma io cercherò di restare sempre me stesso. Sul terzo gradino del podio metto “Gallo Cedrone” del 1998. Delle volte la vita inganna, la gente tende a credere alle ap­parenze: è questo il messaggio. Quar­ta piazza per “Borotalco” del 1982: lì c’è la ragazza fan accanita di Lucio Dalla e mi fa pensare che ave­re un modello è importante, perché ti aiuta a fare cose straordinarie. Un altro grande attore che mi fa impazzire è Pao­lo Villaggio. Il film che amo di più con il ragionier Ugo è “Fantozzi contro tutti” (terzo film della saga, girato nel 1980, ndr) perché ci sono le scene della Coppa Cobram, la gara di ciclismo, col visconte direttore della mega ditta che fa correre in bici i dipendenti. Sono im­magini ciclistiche di una comicità assoluta, ogni volta che le vedo muoio dal ridere».
Chi ti ha aiutato ad arrivare fino a vestire la maglia rosa?
«Oltre alla mia famiglia e alla mia fi­dan­zata, devo ringraziare Antonio Fra­tusco, il mio allenatore fin dai primi an­ni. Mio zio Noè mi ha insegnato tanto, in particolare i sacrifici necessari per diventare professionista e potermi sistemare. Ho conseguito il diploma in ragioneria con 93/100, ma in corsa non basta essere bravi a fare i calcoli, spesso bisogna seguire l’istinto. Sono felice di poter fare il ciclista di mestiere. Mi ritengo fortunato, non mi manca nulla. I sacrifici che la vita da sportivo impone non mi pesano. Mi piace allenarmi, come fare stretching».
Per il futuro cosa hai capito?
«Che devo lavorare sulle salite lunghe e sulla crono. Tra i primi e il quindicesimo il divario non è enorme, ballano quei 10 watt che in due o tre anni si possono acquisire preparandosi per be­ne. Io finora in allenamento non svolgevo mai salite di un’ora o più, non mi sono mai avvicinato a una grande corsa come chi punta alla top 5-10. Per le brevi corse a tappe mi sento già più pronto, guardando più in là sono convinto che puntare ad un piazzamento nei cinque in un grande giro per me è possibile. Non voglio esagerare dicendo che ne vincerò uno, ma una posizione a ridosso del podio è alla mia portata. Ripeto, non c’è un abisso tra fare decimo o ventesimo. È tutta questione di preparazione e soprattutto di abitudine, fisica e mentale, allo sforzo prolungato».
Dove ritroveremo Valerio Conti protagonista?
«Al Tour de Pologne e alla Vuelta a España. Questi sono i miei obiettivi per la seconda parte di stagione».

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