
di Carlo Malvestio
Il forte legame tra i colombiani e le salite non lo scopriamo certo oggi. Ma se fino a qualche decennio fa si limitavano a fare da comparse esclusivamente là dove la strada si inerpicava, ora sono corridori più completi e solidi. Insomma, non sono più solo scalatori, ma corridori a tutto tondo. E che corridori.
Quelli conosciuti come gli “escarabajos”, i coleotteri, perché di bassa statura e scuri, che volavano imprendibili verso le vette dei monti, hanno allargato il loro habitat, diventando la specie dominante del ciclismo mondiale.
Un esempio lampante è l’ultima Volta a Catalunya e gli arrivi in quota a Vallter 2000 e La Molina.: su quest’ultima, per esempio, Egan Bernal attacca, Nairo Quintana lo segue, Miguel Angel Lopez inizialmente cede terreno, poi rientra e prende tutti in contropiede, aggiudicandosi tappa e maglia. La corsa a tappe catalana è stata probabilmente quella con l’elenco di partenti di maggior prestigio del 2019 fino a questo momento, e i colombiani hanno fatto il bello e il cattivo tempo, con il solo Adam Yates che è riuscito ad inserirsi nella contesa tutta sudamericana. Lo stesso era capitato alla Parigi-Nizza, con Bernal e Quintana che si erano divertiti a scattarsi in faccia mentre gli avversari arrancavano alla loro ruota.
Mai come quest’anno potremmo assistere ad una bella bagarre tra colombiani nelle gare a tappe, anche se i Grandi Giri poi sono un’altra storia, visto che lì conteranno anche squadra, esperienza e doti di recupero.
Sia chiaro, la Colombia ha sempre avuto una forte tradizione ciclistica e, non a caso, è lo sport più seguito insieme al calcio. L’impressione è però quella di essere di fronte ad una vera e propria generazione d’oro, la “epoca de oro” come dicono loro. Talenti che emergono come funghi in un sentiero di montagna, proprio mentre l’Italia fa fatica a trovare un degno successore di Vincenzo Nibali.
I tifosi colombiani hanno ormai l’imbarazzo della scelta su quale corridore tifare. Volendo mettere dei paletti temporali, possiamo affermare che l’exploit del ciclismo escarabajo sia cominciato con Rigoberto Uran, classe 1987, e abbia vissuto un “in crescendo” continuo, con corridori come Sergio Henao (1987), Nairo Quintana (1990) ed Esteban Chaves (1990) che hanno saputo imporsi ad altissimi livelli, mentre altri, come Winner Anacona (1988) e Darwin Atapuma (1988), sono riusciti a collocarsi in una fascia intermedia, lavorando per i propri capitani, con la licenza di uccidere in alcune occasioni. Altri si sono persi per strada, per problemi fisici o semplicemente perché l’anima latina che era in loro non ha permesso di fare la vita da professionista al 100%; tra questi Fabio Duarte (1986), Julian Arredondo (1988) e Carlos Betancur (1989).
La crème de la crème si sta però formando in questi anni, con Miguel Angel Lopez (1994), Egan Bernal (1997) e Ivan Sosa (1997) su tutti, ma anche Daniel Martinez (1996), Alejandro Osorio (1998), approdato quest’anno alla Nippo-Vini Fantini di Francesco Pelosi, e tanti altri, che magari non hanno il talento di quelli già citati ma hanno un motore ancora tutto da scoprire. E per riprendere quanto si diceva all’inizio, ormai sta fiorendo anche una generazione di velocisti, a conferma del fatto che definirli solamente scalatori è estremamente limitativo. Fernando Gaviria (1994) è tra i migliori tre sprinter al mondo, ma ci sono anche Sebastian Molano (1994) e Alvaro José Hodeg (1996) che stanno cercando di farsi largo nel mondo del World Tour.
Ma a cosa è dovuta questa incredibile crescita? Di Corridori con la C maiuscola la Colombia ne aveva già avuti, da Lucho Herrera a Santiago Botero, passando per Fabio Parra e Chepe Gonzalez, ma questa fioritutra di talenti sbocciati all’improvviso la rendono indubbiamente una delle superpotenze del ciclismo. Innanzitutto, la Federazione ciclistica colombiana ha fatto un lavoro egregio, facendo investimenti con parsimonia e dando grande visibilità a questo sport. Ora possono godere di una squadra Professional, la Manzana Postobon, che permette a tanti atleti del Paese di mettersi in mostra su palcoscenici internazionali, e l’istituzione del Tour Colombia per i professionisti si è rivelata una scelta vincente. Lo spettacolo offerto dalla marea di gente che si è riversata sulle strade lo scorso febbraio è stato impagabile; neanche i Grandi Giri possono vantare un pubblico così caldo e numeroso.
Le squadre europee hanno iniziato gradualmente ad interessarsi sempre più al movimento colombiano, e l’occhio lungo di alcuni direttori sportivi, con Gianni Savio in primis, che nel giro di due anni ha rivelato al mondo Bernal e Sosa, ha permesso a diversi corridori di fare il grande salto nel ciclismo europeo da molto giovani. Ciò che sorprende, inoltre, è come molti di questi riescano ad essere già competitivi ai massimi livelli a poco più di 20 anni, mentre i ciclisti europei devono passare attraverso un processo di crescita più lento e laborioso. Questo si può spiegare anche da un punto di vista fisiologico. La maggior parte dei corridori proviene infatti da due regioni della Colombia, l’Antioquia e l’altopiano cundiboyacense. Sono zone circondate dalla cordigliera delle Ande, con montagne che toccano anche i 3000 metri di altitudine. Le Ande ci sono anche in Paesi come Bolivia, Perù ed Ecuador, ma lì semplicemente non c’è la passione per il ciclismo che contraddistingue la Colombia. Abituati fin da bambini ad andare su e giù in bicicletta, il loro corpo si adegua, il livello di emoglobina ed ematocrito si alza inevitabilmente e le performance migliorano. Da qui nasce la leggenda degli scalatori colombiani. Che il 2019 sia l’anno del loro definitivo sorpasso sui colleghi europei?