Giorgia Bronzini volta pagina

di Giulia De Maio

Solo i grandi campioni sono in grado di chiudere una lun­ga carriera a braccia alzate. Giorgia Bronzini rientra perfettamente nella categoria. La 35enne velocista piacentina il mese scorso ha appeso la bici al chiodo vincendo a Madrid la sua ul­tima corsa in bicicletta. Come in una favola, il lieto fine non poteva mancare. Dopo 17 stagioni nella massima categoria e 116 vittorie, tra cui tre titoli mondiali, ha conquistato la prova in li­nea della Madrid Challange. A rendere questo finale ancor più dolce, sulla te­sta di Giorgia sono piovuti i complimenti di colleghe di tutte le età e di tutte le nazionalità. Dalle giovani che l’avevano e l’hanno per modello, alle coetanee con le quali è stata protagonista di tanti sprint in giro per il mondo.
«Buona fortuna Giorgia. È sempre un piacere gareggiare con o contro di te; appassionata e corretta. Grazie per il prossimo capitolo. Ci vediamo!» ha twi­ttato la storica rivale olandese Ma­rianne Vos, argento alle spalle della Bronzini sui traguardi mondiali sia a Melbourne 2010 che a Copenhagen 2011.
«Sono un pochino dispiaciuta, ma so­prattutto felice per Giorgia. Non potevo sperare di meglio oggi. Ho corso al suo fianco dal 2015 al 2017 e ho solo bei ricordi legati a quegli anni. Mi ha insegnato a prendere la posizione mi­gliore per lo sprint e tante cose utili per diventare l’atleta che sono. Anche da avversaria mi ha dato parecchie lezioni, provo una grande ammirazione nei suoi confronti. E poi è una tra le persone più simpatiche che io abbia mai co­no­sciuto, un clown» ha dichiarato la bel­ga Jolien D’Hoore, seconda a Ma­drid e vincitrice delle due precedenti edizioni della corsa spagnola.
Elisa Longo Borghini, che ha ereditato da Giorgia il ruolo di capitana azzurra, ha solo parole al miele per la sua mentore: «Si meritava di chiudere così la sua incredibile carriera. È una vera campionessa. Dopo la linea del traguardo di Madrid non riuscivo a smettere di ab­bracciarla. L’ho conosciuta quando ero una junior nel giro della Nazionale, è sempre stata un pun­to di riferimento per tutte noi, essere al suo fianco al mondiale del 2011 quando vestì la sua terza maglia iridata è uno dei momenti più belli che ho vissuto finora».
E ancora: «Correre insieme alla Wiggle mi ha fatto imparare molto. Giorgia è la classica persona che sa mettere tutti a proprio agio e ha la parola giusta al momento giusto. Se ho conquistato il Fiandre, le Strade Bianche e una medaglia olimpica lo devo anche a lei. Lei ha vinto tanto, non sempre perché fosse la più forte ma perché era la più intelligente. Mi ha insegnato ad essere fredda in corsa e a co­gliere al volo le opportunità».
«In gruppo Giorgia è ammirata perché può essere furiosa in vo­lata, ma allo stesso tempo tutte l’abbiamo più volte vista mettersi a disposizione delle compagne. Ha costruito la sua autorevolezza non solo con i risultati, ma soprattutto con il suo atteggiamento. Se il nostro movimento aveva un problema quasi sempre era lei ad alzare la voce in rap­presentanza di tutte noi. Ci mancherà tanto» ag­giunge l’olandese Lucinda Brand.
Ritorniamo a Madrid, ritorniamo a Giorgia. Cosa hai provato ad attaccare l’ul­timo numero sulla maglia della Cy­lance Pro Cycling?
«Ero nervosa, agitata, spaventata non perché stessi per affrontare la mia ultima corsa, ma perché stava per fi­nire un capitolo importante della mia vita e ne stava per iniziare un altro. Quando nuovi progetti stravolgono la tua routine, penso sia normale avere qualche dubbio. In più, tanti mi avevano suggerito di continuare, visto che ero ancora competitiva e in questa stagione avevo ottenuto buoni risultati. “Sarà la cosa giusta da fare?”. mi chiedevo, avvertendo già un po’ di nostalgia. Al mattino, prima della corsa, ho ricevuto la chiamata di Jessica, la mia mi­gliore amica, era in vacanza ma sapeva che per me sarebbe stata una giornata particolare, se lo sentiva. Chiac­chie­rando sono scoppiata a piangere, ma lei come sempre ha trovato le parole giuste per confortarmi. Non puoi finire coi lacrimoni, devi chiudere a braccia alzate».
Ci sei riuscita.
«Già (sorride, ndr). Ho tagliato il traguardo concedendomi un urlo liberatorio. Ero incredula, un arrivo così l’ho sempre desiderato, qualsiasi sportivo sogna di smettere da vincente. Io l’ho sempre detto: voglio che la gente si ri­cordi di me all’apice della carriera e non nella parabola discendente. Facile a dirsi, difficile a farsi. Doveva capitare una mezza magia. È avvenuta. Non mi era riuscita a Piacenza, quando a luglio il Giro Rosa è arrivato a casa mia, e ci te­nevo tanto a vincere. Quella è stata la giornata più nera dell’anno, me ne so­no capitate di ogni, ma la ruota gira. For­se era destino, doveva finire così. Cre­derci ed essere positivi funziona sempre».
Hai fatto una magia. Non a caso in gruppo sei sempre stata soprannominata “la maga”.
«È vero. Dopo il traguardo è stato stupendo. Leggere tutti i commenti circolati in rete mi ha commosso. Con il cuo­re mi hanno tributato omaggi in lungo e in largo. Tra i tanti messaggi ri­cevuti mi ha colpito quello di Marianne Vos, la mia avversaria di sempre, che per me ha speso proprio delle belle parole. Oltre a lei, ho ricevuto un grande in bocca al lupo per il futuro anche da altre campionesse con le quali ho avuto l’onore di correre e di battagliare come Emma Johansson e Jolien d’Hoore. Le mie ex compagne della Wig­gle sono venute in blocco ad ab­bracciarmi, nonostante avessero Au­drey Cordon Ragot in fuga con me, e tutte insieme hanno portato una bottiglia di champagne al bus della mia squadra per festeggiare. In tante hanno detto che si sentirà la mia mancanza in gruppo. Sono contenta soprattutto di essere stata riconosciuta come un’avversaria leale. Questo è il mio messaggio per le giovani: siate corrette. Se per­di perché un’altra atleta è stata più brava di te non è un dramma, anzi quella sconfitta deve spronarti a fare sempre meglio, per vincere alla prossima occasione. Io l’ho imparato dal mio primissimo allenatore, Guglielmo Spin­gardi, ai tempi della GS Zeppi, che mi diceva sempre “prima impari a perdere, prima impari a vincere”. Il segreto della mia carriera forse è stato proprio questo: da una sconfitta ho sempre ricavato l’energia e la spinta giusta per ripartire».
Quali resteranno i momenti indimenticabili della tua carriera?
«I tre mondiali, a partire da quello della corsa a punti di Prusz­kow 2009, saranno per sempre indelebili così come le tre partecipazioni ai Giochi Olimpici avranno per sempre un sapore unico. Le ho vissute in tre modi differenti. Ad Atene ero così giovane che mi sembrava di essere sulle nuvole, ero come una bambina nel mondo dei balocchi. Dovevo essere di supporto a Noemi Cantele e Tatiana Guderzo, diedi il massimo per la squadra. Una delusione “top” è stata l’esclusione dalla squadra di Pechino, quando Marta Bastianelli fu tagliata fuori, io da riserva speravo di essere schierata invece non fui scelta e ci ri­masi molto male. Un altro momento di sconforto lo vissi prima delle Olim­pia­di di Londra quando a maggio mi rup­pi la spalla. Ad agosto dovevo essere protagonista, diedi il massimo per re­cu­perare il prima possibile, ma avevo paura di non avere abbastanza tempo. Sia la mia famiglia che gli amici e lo staff della Nazionale mi sono stati vicino. Ottenni un quinto posto, con il rammarico di non essere riuscita a portare a casa una medaglia e, allo stesso tempo, la consapevolezza che non avrei potuto potuto fare nulla di più, visto quello che era successo. La mia terza Olimpiade è stata quella più sudata, quella di cui sono più orgogliosa e che ha fruttato la bellissima medaglia di Elisa (il bronzo della Longo Borghini, ndr). A Rio affrontai più di metà gara in fuga, con gente fortissima sul passo come la campionessa olimpica della crono Armstrong, Worrack, Van Dijk... Alla sera mi hanno rivelato che quando la radio ha annunciato i nomi delle attaccanti al CT è scappato da ridere, in effetti avrei dovuto fare un miracolo solo per reggere il loro ritmo. Sapete io a cosa pensavo mentre mi facevano ma­le le gambe? Che se mi staccavo ero licenziata, così quando toccava a me tirare facevo finta di essere in “zona com­fort” anche se ero “a tutta”. Battute a parte, anche quella volta ho svolto il mio compito come dovevo e ne vado fiera».
Quanto hai voglia di iniziare la nuova avventura in ammiraglia?
«Praticamente l’ho già cominciata. Speravo di conquistarmi un posto da atleta per Inn­sbruck, non ho però fatto in tempo ad assaporare l’amaro in bocca lasciatomi dalle convocazioni, che Dino Salvoldi mi ha chiesto di andare in Tirolo al suo fianco. Sono sincera, mi sarebbe piaciuto vestire ancora una volta la maglia azzurra, un simbolo a cui sono legatissima, ma questa chiamata nello staff mi ha subito addolcito. Significa che la Na­zionale ha riconosciuto che sono una persona importante per il gruppo. Appena scesa di bici, mi sono ritrovata subito sull’ammiraglia dell’Italia e ho avuto l’occasione di vivere un’esperienza fortissima. Ho tenuto gli occhi ben aperti per imparare quello che fa un tecnico, ho sfruttato il momento per migliorarmi in vista del lavoro che an­drò a svolgere come diesse alla Trek. Do­vrò dirigere fior fior di campionesse, devo fare esperienza dal lato gestionale, più che su quello tecnico e di preparazione. A una fuoriclasse come la Van Dijk mica posso dire “usa il 14 al posto del 13”, mi manderebbe a quel paese e avrebbe anche ragione, visto che contro le lancette non ero di certo un drago».
Come ti stai preparando?
«A novembre svolgerò il corso per di­rettore sportivo UCI ad Aigle e prima ancora, a fine ottobre, sarò a Waterloo, alla sede della Trek, per la prima riunione con gli atleti e la dirigenza. Prenderemo le misure per i materiali, svolgeremo dei meeting e stileremo il piano delle gare. Le ragazze con cui avrò a che fare, soprattutto le più esperte, sanno già come comportarsi ma penso di poter essere loro utile per quanto riguarda la gestione tecnica della gara. Dovrò prendere delle decisioni non facili. Forse per la prima volta capirò davvero certe scelte assunte dei tecnici con cui ho lavorato. Ho voglia di imparare, con umiltà chiederò consigli. A chi mi ispiro per questa nuova professione? Un mio modello è Franco Bal­le­rini, che ho conosciuto bene e ricordo come una persona davvero carismatica, che ha lasciato il segno. Poi a Dino, ovviamente, e ad Antonio Fanelli, mio diesse negli anni d’oro della Chirio, semplicemente un grande».
Che diesse sarai?
«Spero proprio di non diventare una bacchettona, un’isterica, che scesa dalla bici perde la testa. Mi immagino al contrario una buona mediatrice per i vari problemi che possono instaurarsi tra le atlete. Vorrei diventare per loro una buona consigliera, soprattutto sul­la gestione dell’ansia in corsa. La capacità di tenere sotto controllo il nervosismo e non fare errori in occasione dei grandi appuntamenti mi ha sempre ca­ratterizzato. Penso di poter essere un buon supporto anti stress, un punto di riferimento per aiutarle a stare calme e a presentarsi nella condizione migliore agli eventi che contano».
Quali traguardi vuoi raggiungere in ammiraglia?
«Per iniziare mi piacerebbe vincere una bella gara World Tour e poi, se avrò l’occasione di poter continuare a collaborare con la Nazionale, il mio grande sogno è portare un’italiana a vincere un titolo mondiale».
Che regalo ti concederai per la fine della carriera?
«Andrò in vacanza in Thailandia e al ritorno credo mi convenga frequentare un corso di computer. Sono obbligata perché con la tecnologia sono proprio a zero. Ho comprato un pc nuovo, ora devo cercare di non farlo esplodere (scherza, ndr). Fa ridere che Ina-Yoko Teutenberg (l’ex velocista tedesca, che dirigerà la neonata Trek insieme a lei, ndr) è uguale a me, chissà che fogli excel riusciremo a creare... Forse è me­glio che andiamo sul sicuro con carta e penna».
Che ciclismo lasci, o meglio, ritrovi in una nuova veste?
«Negli anni il ciclismo femminile è cambiato tantissimo. Nella preparazione e nel modo di allenarsi i progressi sono stati notevoli. Ora fin dalle categorie giovanili si è attenti al dettaglio. Io da junior usavo ancora il computerino con i fili e non sapevo cosa erano i watt, ora esaminano lo spostamento dell’aria di un moscerino che passa sugli occhiali. Se questo da un certo punto di vista è un bene, perché si va alle corse con un piano ben studiato e non alla “carlona”, d’altro canto vedo atleti che non sono in grado di tenere gli occhi aperti in corsa, non sanno prendere decisioni al volo, seguire l’istinto, improvvisare, non sanno adeguarsi alla situazione. Secondo me, in certi momenti, se devi andare a tutta, vai a tutta, e chissenefrega dei watt. Nel mondo di oggi il risultato deve ar­ri­vare subito e questo mi preoccupa. Le nostre junior vincono già di tutto e di più, c’è il rischio che arrivino a una sa­turazione precoce, più mentale che fi­sica. I sacrifici che hanno affrontato quest’anno per Europei e Mondiali io li ho incontrati solo nella massima ca­te­goria. Finché andavo a scuola ero una studentessa che praticava sport, oggi a volte è il contrario. Devi avere una testa davvero solida per reggere tanto impegno per anni. Non vorrei che i nostri talenti vengano spremuti troppo, se così fosse un domani non avranno più voglia di soffrire».
La bambina che iniziò a correre 25 anni fa è fiera della donna che è diventata?
«Penso mi direbbe: “bella zia!”. Da quando a 10 anni vidi una garetta dietro casa e iniziai a correre per gioco, è passata davvero una vita, di cui posso essere orgogliosa. Per certi aspetti so­no ancora un po’ quella bambina che in sella a una Raimondi di un rosso un po’ spento, con le gabbiette e il cambio sul telaio, alla sua prima corsa ha chiuso penultima coi maschi, precedendo però l’unica altra ragazzina in gara. Quella bambina che amava lo sci e im­pazziva per la Compagnoni, che faceva ginnastica artistica. Sono cresciuta ma sono rimasta solare, disordinata e te­starda. Quell’ultima domenica a Ma­drid mi sarei voluta dare un abbraccio da sola. Dentro di me mi ripetevo: “Cosa hai fatto? Più di così non potevi sperare e ottenere. Complimenti Gior­gia, ora puoi davvero essere un idolo per qualcuno”».

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