Storie di duelli, storie di sport
di Gian Paolo Ormezzano
Tante televisioni stanno di questi tempi riscoprendo il secolo appena lasciato indietro: cercano di visitarlo in chiave almeno un pochino storica, dopo averlo salutato, alla fine del 1999 (scelto come anno di chiusura del millennio sullo slancio di un errore peraltro sacralizzato dalla frequentazione quasi generale), seguendo soprattutto le pulsioni cronistiche nella ricerca e catalogazione di sfide ancora fresche. I grandi momenti, i grandi duelli, le grandi imprese che le televisioni ci ripropongono hanno una valenza nuova rispetto alle pur recentissime proposte di fine secolo anzi addirittura di fine millennio. Sembra che sulle immagini si sia depositata una sorta di polvere, ed è polvere in genere d’oro.
Buona occasione per una riapparizione in forze - le forze dei miti, dei sentimenti popolari - del ciclismo sul piccolo schermo. Il ciclismo ha materia ottima ed abbondante da offrire, e arriviamo persino a sperare, a pensare, a credere, a decidere che una certa dose della sua preziosità è dovuta all’eccessivo algido incancrenirsi tecnico degli sport del motore, con anche la motocicletta ormai entrata nel giro perverso dell’automobile quanto a sofisticazione dei mezzi e progressiva robotizzazione degli uomini. Il ciclismo è fatica semplice e purissima, è prova umana assoluta. Pare addirittura che sia riuscito anche ad essere poesia.
Così le teletrasmissioni dedicate alle sfide, ai record, ai dualismi (specialità ciclistica, peraltro) sono abbondanti e rischiano persino di essere belle, semplicemente belle, facilmente belle, profondamente belle. Personalmente, per quelle che definiamo squallide ragioni anagrafiche siamo sempre più spesso chiamati a raccontare, a ricordare, a testimoniare. E in particolare sul ciclismo. Sempre personalmente, diciamo che ci pare di potere stupire facilmente i nostri intervistatori e quindi, di rimbalzo, i telespettatori: nel senso che ci accorgiamo che le cose semplici di cui parliamo fanno subito effetto. Ma come, quel giorno davvero nevicava e quelli lì pedalavano per ore sotto la neve? Davvero Rik Van Steenbergen e Miguel Poblet si parlavano in volata, mentre lottavano, ai settanta all’ora, per un centimetro in più o in meno? Sino alla nostra grande rivelazione: sapete che una volta si poteva parlare con i corridori ed anche con i calciatori, i cestisti, i piloti semplicemente andando da loro, porgendo la mano e chiedendo se avevano un po’ di tempo per noi, domanda che peraltro non veniva mai appesa ad una risposta, perché si sapeva che era un sì.
Riusciamo a stupire raccontando imprese che sono semplicemente belle buone cose umane, riusciamo a stupire collocando queste imprese, e noi che di esse riferivamo, in un mondo senza agenti, procuratori, manager, uffici-stampa, addetti alle pierre, sponsor filtranti, concessioni limitatissime di un atleta alla volta e comunque per pochi minuti. Per la verità qualcuno sostiene che nel ciclismo le cose stiano ancora come una volta, o quasi, ma sempre meno sono, all’arrivo, le belle affannate corse dopo il traguardo degli inviati per contattare il vincitore e seguirlo per qualche metro, cercando di arpionarlo con le prime decisive domande: tanto poi lui dice le cose alla televisione, e poi c’è magari la conferenzuccia stampa tutta per noi, per la nostra tribù di adepti del taccuino.
È abbastanza bello ed abbastanza brutto rendersi conto di avere frequentato tempi felici senza godere troppo di questa loro felicità. Brutto e bello per via del rimpianto, si capisce, ma anche del senso di una missione parzialmente mancata, di una fortuna non decisamente, non professionalmente sfruttata, di un debito insomma. Non un minuto del passato è da gettar via, anzi, ma quasi tutti i minuti del passato non hanno dato concreti interessi, se non altro a pro dello sport che pure ci ha offerto pane, salame e certe volte persino caviale.
Proseguiamo in queste annotazioni di una esperienza personale, sperando che siano in qualche modo interessanti. Su una faccenda come quella del passaggio della borraccia fra Bartali e Coppi o fra Coppi e Bartali riusciamo ancora a sollecitare l’attenzione di giovani giornalisti nostri intervistatori. E vediamo che le immagini dei due pedalanti piacciono a loro intanto che le propongono a noi. Una volta abbiamo invitato un collega a studiare gli abiti, le facce delle persone ai bordi della strada o sui balconi per una tappa del Giro d’Italia o un passaggio della Mille Miglia. Con noi il collega ha rivisto, anno dopo anno, una storia degli abiti, dei gesti, delle facce (meno baffi, più cosmetico) degli italiani e delle italiane. Queste ultime poche e in terza, quarta, ultima fila nelle prime edizioni, poi sempre più avanzanti, sempre meglio esposte, sempre più sicure di se stesse, anche perché sempre meglio svelate dalle vesti. Pensiamo che quel collega abbia gradito il suggerimento, l’invito.
Giuriamo che non approfittiamo mai della situazione di semidevozione del giovane al vecchio, del neofita all’esperto, per proporre anzi imporre una gerarchia di imprese, una graduatoria di valori. Come di un mobile di antiquariato non si fa, non si deve fare il paragone con un mobile moderno, così ci pare assurdo mettere in fila cose distanti e pretendere di schiacciarle nello stesso tempo, quello di un giudizio. Diciamo soltanto che tutti questi revival che sono anche, personalmente, rivitalizzazioni ci piacciono un sacco, ci emozionano senza nessun rischio cardiaco, ci commuovono senza nessunissimo sdilinquimento. Sono insomma tenere e forti faccende sportive.
P.S.: scrivo ormai al computer, tutto, sempre, ma l’ultimo modello mi sottolinea in rosso le parole semplici che però ho scritto con un errore di ortografia e le parole difficili, troppo nuove, straniere o foreste che lui, il computer, non ha in memoria. A mia volta segnalo, sulla scorta appunto delle segnalazioni del “mostro” che Coppi non patisce nessuna sottolineatura, Bartali sì. Sarebbe bello saper chiedere al computer se è una sua scelta fra i due campioni, un suo riconoscimento, o se Coppi è inteso come plurale di coppo, tegola.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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