Editoriale
É l’argomento del momento. Uno dei grandi temi sul quale l’uomo si dovrà confrontare nel nuovo millenio. Il dibattito sulla clonazione è apertissimo, e potrebbe riguardare in futuro anche lo sport, che è invece ancora alle prese con la soluzione di un caso che sembra senza soluzione: il doping.
In Inghilterra il ministero dell’Agricoltura ha deciso di tagliare i fondi all’Istituto Roslin di Edimburgo, dove lo scienziato Ian Wilmut ha clonato la pecora Dolly, per distanziarsi dalle sue ricerche e forse per fermarle. Negli Stati Uniti, invece, molte famiglie sembrano approvare la possibilità di avere «il figlio perfetto» e, in questo modo, raggiungere l’immortalità perpetuando la versione migliore di se stessi, il figlio selezionato.
Per molti studiosi da qui alla sostituzione di un bambino morto col suo clone, o alla produzione di cloni per la sostituzione degli organi, quindi alla selezione della razza, il passo sarebbe breve. Ma cosa c’entra il ciclismo con quanto sto argomentando? Un attimo di pazienza e tutto vi sembrerà più chiaro. Seguitemi.
Da sempre il ciclismo ha un rapporto tutto particolare con la sua Storia. Se c’è uno sport che ha reso immortali i propri protagonisti è proprio lo sport della bicicletta. Per certi versi è il suo limite ma per altri è la sua vera particolarità. Il calcio, il basket, la F.1, la pallavolo per non dire il tennis sono discipline abituate a guardare sempre avanti, a «bruciare» i propri beniamini. Alessandro Del Piero, Damon Hill, Andrea Meneghin sono già vecchi, la fantasia adesso si accende solo per Ronaldo. Il ciclismo è ancorato invece alla propria Storia, ai propri miti, e su questi si raffronta e si confronta di continuo. Adesso, con l’avvento dell’era delle clonazioni il ciclismo ha la possibilità di «fermare» nel vero senso della parola il corso della propria storia.
Pensate se qualcuno clonasse Miguel Indurain, e se invece qualcun altro avesse provveduto a replicare Merckx, Eddy s’intende. Il ciclismo del futuro potrebbe essere animato da nomi storici, da autentici miti dello sport della bicicletta, ma privi della loro storia, perché questa verrebbe meno a scapito dell’immortalità, che verrebbe irrimediabilmente distrutta.
Talenti di ciclismo che potrebbero essere differenziati e identificati solo dalla locuzione «prima generazione» o dall’annata di clonazione. Insomma i Giri, i Tour, i mondiali e tutte le più belle corse del calendario potrebbero essere vinte dal Merckx della prima generazione, oppure dal Bugno del 2050, e dal Bartoli del 2085. Insomma, una serie infinita di «replicanti», che renderebbero solo all’apparenza immortali questi fuoriclasse del pedale ma nella sostanza ne verrebbero uccisi, loro e la loro storia. Corridori, e di conseguenza uomini, ridotti alla stregua di file, con il loro codicillo e l’anno di immissione sul mercato.
Stiamo forse farneticando, i libri di George Orwell e i film di John Carpenter forse ci hanno fatto male, oppure la pecora Dolly ci ha suggestionato oltremisura? Mah, visto quello di cui l’uomo è stato capace di fare in questi anni, e si appresta a fare, non ci meraviglieremmo più di tanto. Certo, questo non è un problema che ci riguarda. Noi molto probabilmente non ci saremo, ci sarà qualcun altro al nostro posto. Magari sempre noi stessi, replicati a tal punto da sembrare sempre più perfetti. E se invece venisse raddoppiata soltanto la nostra imperfezione? No no, non può essere accettabile un simile futuro. In questo modo si ucciderebbe l’uomo e con lui i suoi sogni. È il ricordo che anima il mondo. Nulla è più sublime del rimpianto. Il ciclismo dei «replicanti» perderebbe la sua storia, la sua memoria, i suoi miti. È bello sapere che Girardendo e Binda, così come Coppi e Bartali, sono esseri irripetibili. È bello poter sognare le loro imprese, le loro fughe, le loro sconfitte. Sarebbe un grave errore ridare al ciclismo un nuovo Merckx (Axel sarà un clone?). Poveri noi se davvero fossimo decisi ad inseguire l’immortalità, avremmo la certezza della nostra fine, e con essa la morte della memoria.
Dalle foto sui giornali Dolly ci guarda. Non facciamo le pecore.
Pier Augusto Stagi
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