Il ciclismo e’ uno: maschile e su strada
di Cristiano Gatti
Caro direttore, vorrei inserirmi brutalmente nella discussione che hai avviato nell’ultimo numero parlando del ciclismo femminile.Subito una dichiarazione di voto. Per me esiste solo un ciclismo: maschile e su strada. È una banalissima questione di gusti personali, non intendo certo argomentare in termini assoluti sull’essenza di uno sport che ha mille varianti (dal mio punto di vista, deviazioni). Chi va matto per la mountain bike, per la Sei giorni, per il ciclismo femminile, è comunque dei nostri. Ma ha un’altra visuale. Per quanto mi riguarda, uno sprint di Cipollini, uno scatto di Bartoli, una scalata di Pantani, una cronometro di Ullrich suscitano emozioni che nemmeno la più leggendaria delle Luperini riesce minimamente a eguagliare. Il mondo è bello perchè è vario, ciascuno si diletta con gli spettacoli che preferisce, uno tiene al Milan e l’altro dà di testa per la Juve. Punto e stop, la questione dovrebbe chiudersi qui. Invece no: io e quei due o tre che considerano un solo ciclismo, maschile e su strada, dovremmo sentirci in colpa.
È un fenomeno che comincia veramente a rompere. Diventa un obbligo sociale, quasi una norma di bon ton sportivo, parlare in termini umani e solidali di queste riserve naturali dove sopravvivono ciclismi diversi. Con spirito da Giovani Marmotte, dobbiamo tutti commuoverci perché il ciclismo femminile non ha i mezzi e il seguito popolare che si merita. Che si merita? A me sta bene che la gente si senta più buona dedicando qualche attenzione pietistica al ciclismo femminile. Ma cerchiamo di non fare della retorica buonista e facilona: tutti gli sport, come tutte le arti e come tutti gli spettacoli, hanno il seguito che si meritano. Questa è una verità assoluta e sacrosanta, una delle poche che non sono influenzabili da circostanze esterne: se un tifoso si piazza il giorno prima sul Pordoi, magari in mezzo alla tormenta, per vedere la sfida tra Gotti e Pantani, mentre lo stesso tifoso non starebbe mai nemmeno cinque minuti ad aspettare la Chiappa e la Bonanomi, il motivo è molto semplice: preferisce così.
È pur vero che tutti quanti in Italia siamo vittime di complotti (se siamo tutti vittime, un giorno poi chiariremo chi li fa), ma vediamo almeno di non inventarne di ridicoli. Non sta scritto da nessuna parte che si debba provare ogni volta un fremito di indignazione se la gente si gira dall’altra parte. Se il tiro con l’arco e il softball non hanno la popolarità del calcio, non è colpa di oscuri disegni sionisti o filosovietici: è soltanto perché la gente preferisce una punizione di Del Piero a una freccia nel bersaglio. Così e basta. Non si può ogni volta parlare di scarsa cultura sportiva, peggio ancora di inciviltà, se i gusti del pubblico non contemplano una tenera attenzione alle Foche monache dello sport. Possiamo ritagliarci almeno quest’ultimo angolo di libertà individuale, scegliendo nel tempo libero quello che più ci pare e piace? Oppure dobbiamo recitare ogni volta la parte dei contriti e degli afflitti perché le donne cicliste, poverine loro, tanto dolci e tanto carine, sono passate senza che ci fosse un cane in strada ad applaudirle? Possiamo una volta tanto, senza sentirci cinici e criminali, pronunciare un liberisimo e sportivisssimo «e chi se ne frega»?
Sia chiaro: tanti auguri (e figli maschi per il momento è meglio di no) alle nostre campionesse del ciclismo rosa. Se il mondo si sta lentamente coniugando al femminile, capaci che tra vent’anni avranno spazzato via i Pantani e gli Ullrich, richiudendoli nelle riserve dei reietti e dei dimenticati finora occupate da loro stesse. Ma per il momento, se è possibile, basta con i vittimismi e i piagnistei. Se la televisione non riprende le corse per donne, non è perché dietro si nasconda un becero maschilismo o uno sporco boicottaggio: è soltanto perché quella televisione non vuole passare alla storia col primo share a segno negativo (più televisori spenti di quelli in circolazione). Se invece vogliamo dire che qualche volta la televisione arriva, aggiungiamo però che arriva grazie a qualche oscuro patteggiamento para-aziendale, non certo per una semplice esigenza di mercato. O dico cattiverie?
Mi rendo benissimo conto di aggiudicarmi con questi discorsi almeno un paio di edizioni del premio Fetente Trinariciuto. La regola vuole che davanti ai travagli e alle sofferenze di una disciplina sportiva si dimostri sensibilità e partecipazione. Ma almeno nello sport bisogna salvaguardare la libertà di essere sinceri e persino impietosi: si parla di passioni autentiche e gratuite, non c’è alcun motivo di complicare tutto con calcoli ed equilibrismi. Lo so, dopo aver detto, o anche solo pensato, certe cose, dovrei pentirmi e sentirmi in colpa. Ma sarò grave se non ci riesco?
Cristiano Gatti, 41anni,
bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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