Editoriale
Comincio a pensare, seriamente, di essere malato. Leggo, m’informo, cerco di capire e una volta documentato mi sento vuoto, smarrito. Vorrei pensare che quello che provo io lo provino anche altri appassionati del pedale, ma, sarà forse per una sorta di «sindrome di Calimero», mi sento solo, al di là del guado.
Vado al nocciolo del problema. Continuo a leggere servizi e commenti tra l’indignato e il critico per l’ormai famigerata «radiolina» della Sanremo resa involontariamente famosa da Rossano Brasi. Radioline che sono utilizzate dal gruppo da diversi anni, ma per la quale è bastato l’occhio televisivo a provocare una levata di scudi, ad incominciare dal direttore de La Gazzetta dello Sport Candidò Cannavò, per trovarsi a parlare di un ritrovato tecnologico ormai già abbondantemente superato dai Gsm (vi ricordate che i corridori della Telekom, sempre alla Sanremo, ne avevano applicato uno al braccio?) e da altri ammennicoli elettronici vari. E poi per quale incredibile logica non ci si è indignati ai mondiali di Lugano ’96, quando Figueras, Sgambelluri, Sironi e Bettini ridicolizzarono la concorrenza grazie a gambe buone e a un sistema «informativo» capillare che permetteva al ct Antonio Fusi di guidare i suoi ragazzotti come se fossero delle autentiche macchinine radiocomandate? Misteri della tecnologia. Quella fu considerata giustamente un’impresa, e nessuno ebbe l’ardire di gridare allo scandalo.
Il ciclismo vive ciclicamente di scandali e scandalucci, ma che uno dei mali del nostro movimento diventi la radiolina «paramilitare» come è stata definita da un noto mensile nazionale, mi sembra quantomeno paradossale. Ci sono corridori che rischiano quotidianamente la loro vita perchè corrono senza il casco e fanno ricorso a pratiche semplicemente folli, e per alcuni benpensanti il problema del ciclismo è un auricolare applicato all’orecchio. A tale riguardo mi viene in mente il riuscitissimo film di Roberto Benigni, Johnny Stecchino. Il protagonista, capitato a Palermo, s’imbatte in un taxista il quale, come tutti i taxisti, parla, parla. E racconta che Palermo è una città attanagliata da un gravissimo problema, un problema troppo grosso per essere risolto su due piedi, perché terribilmente atroce e ingovernabile. «Il vero problema di Palermo è il traffico», dice visibilmente preso dal problema il taxista. Il traffico, capite? non la Mafia. Uguale per questi Signori: il ciclismo rischia grosso non per lo smodato ricorso al doping, ma per le radioline, che sono, per questi benpensanti autentici innamorati del ciclismo, «una piaga inutile in uno sport che esalta soprattutto il coraggio e la fantasia creativa». Certo, quanto a fantasia creativa questo Signore non fa certo difetto. Il grave è che ci sono anche medici, come il dottor Carlo Guadascione dello staff medico Saeco, che gli danno manforte. Sarà forse in nome di una lotta ideologica tra scienziati? È forse meglio che il ciclismo resti nelle mani della medicina piuttosto che «correre» sul filo invisibile delle reti telematiche?
Io, che non mi sono mai sentito l’inventore della bicicletta né tantomeno il pronipote di Leonardo da Vinci, trovo più scandaloso l’approccio mentale che viene inculcato a livello giovanile dai nostri tecnici. Un mese fa al «Giro della Primavera d’Italia», dove i nostri hanno fatto il bello e il cattivo tempo, vincendo di tutto e di più, abbiamo assistito a uno spettacolo semplicemente imbarazzante. Due formazioni azzurre, ultrapreparate, al cospetto di un piccolo mondo, rappresentato da nazioni ognuna composta di sei corridori. Insomma, una bella sfida di dodici atleti fasciati d’azzurro, contro nazionali (nemmeno tanto competitive) di sei atleti ciascuna. Più che ad una corsa abbiamo assistito ad un campionato sociale: che goduria! E il ct Fusi felice, con i suoi apparecchietti elettronici impegnato non a battere la concorrenza ma a tenere a bada i suoi ragazzotti smaniosi (giustamente) di competizione. Questo è il vero scandalo: vedere China e compagni contropedalare perché così è stato deciso all’ora di colazione. Quì c’è qualcosa che non torna: corridori professionisti che vengono trattati come dilettanti e dilettanti che vengono elevati al rango di professionisti. D’altra parte - diciamocelo pure - ci sono troppi professionisti che pagano per correre, mentre ci sono dilettanti che vengono ricoperti d’oro prima ancora d’aver dimostrato il loro reale talento. È un mondo fatto così, che gira al contrario, ed è questo che va combattuto con tutte le forze. Forse sragiono, non comprendo alcuni passaggi, ma io la vedo così. Non è scandaloso il vedere Brasi che parla in una fase cruciale della corsa via radio con il suo tecnico, Gianluigi Stanga, ma è intollerabile che China e compagni vengano «inibiti» a fare ciò che il loro istinto li porterebbe a fare. Privare dei ragazzi del loro agonismo è un «reato sportivo»; organizzare il lavoro di atleti professionisti i quali possono ricorrere a tutti i «ferri del mestiere» è segno di grande professionalità. Bartoli, che ha potuto beneficiare di Bettini collegato via radio con Parsani, non ci è parso meno fantasioso e poetico del solito. Ha solo messo a frutto conoscenze tecniche e tecnologiche per rendere più alta la sua Liegi.
La storia del ciclismo è infarcita di equivoci e tradimenti; di corridori professionisti che fasciati d’azzurro fanno finta di non conoscersi e corrono per logiche tutte loro. L’augurio che da appassionato mi faccio (e faccio a Fusi) è che le radioline e il dialogo trionfino nella squadra azzurra professionistica ai mondiali di Valkenburg. E che gli Under 23 sappiano ascoltare più il loro istinto che la voce gracchiante di Antonio Fusi. La vera missione del neo ct azzurro non è quella di fare il padre padrone con una squadra di ragazzini, ma sintonizzare sulle stesse lunghezze d’onda quella dei professionisti: con o senza «radioline».
Pier Augusto Stagi
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