STORIA | 18/11/2016 | 08:02 “La bicicletta mi ha cambiato la vita. Mi ha regalato la felicità”. E sorride, di un sorriso largo, lento, antico. Gasore Hategeka aveva un paio di mesi quando sua madre morì, colera fulminante. E aveva forse dieci anni quando suo padre morì, di infarto, o qualcosa del genere, mentre andava a lavorare nei campi di patate. Sempre che si dia credito all’anagrafe, dove risulta nato il 1° marzo 1987, sapendo che la maggiore parte delle registrazioni viene fatta saltuariamente, come per censire, stabilire, condonare. Da zero alla prima bicicletta sono passati diciotto o forse vent’anni, ed è stata quella bicicletta a cambiargli la vita, a regalargli la felicità. “Una bici cinese, a scatto fisso, trentacinquemila franchi ruandesi, una quarantina di euro. Risparmiati, centesimo dopo centesimo, a forza di trasportare sacchi di patate. Volevo una bici perché mi ricordo che mio padre aveva una bici, era una bici da lavoro, e su quella bici mi portava a lavorare nei campi, e da quando lui morì, io non feci altro che volere una bici”.
Un fratello, una sorella, lui: tre figli, un niente rispetto alle nidiate e alle covate delle altre famiglie. Ma un niente era anche quello con cui tiravano a campare. “Senza genitori, mi rimase solo la strada. Ero un ragazzo di strada. Per dormire, per mangiare, per bere, per arrangiarmi, per imparare a stare al mondo, per imparare a rimanere al mondo. Non è stato facile. Non c’era giorno in cui non avrei potuto morire”. Ma poi si comperò quella bici. “E cominciai anche a lavorare con la bici-taxi. Su e giù, persone e sacchi, su e giù, salite e discese, su e giù, pagato e non pagato, su e giù, pedali e sella, su e giù”. In un villaggio – Sashwara – a una quarantina di chilometri da Gisenyi, al confine con il Congo. Poi le prime lezioni (“Affittavo la bici di un altro e cercavo di stare in equilibrio”), la prima squadra (“Grazie a un corridore di Sashwara, che come me lavorava con la bici-taxi”), la prima corsa (“Con la mia bici-taxi, spogliata dai sedili e dai parafanghi”), la prima vittoria internazionale (“Una tappa al Giro del Camerun nel 2010”), la prima maglia nazionale (“Nel 2013”) e solo dopo un anno che gareggiava, la prima bici da corsa (“Consegnatami dal Team Rwanda”): facile ricordare tutto adesso, che Gasore porta il dorsale 13, indossa la maglia blu della squadra nazionale ruandese, cavalca una Pinarello, attende l’ordine di arrivo, e poi l’invito ad andare in albergo, doccia e pranzo, riposo e cena, notte e colazione, poi un’altra tappa. Qualsiasi tappa non potrà mai essere dura come i primi diciotto o forse vent’anni della sua vita senza bicicletta.
Al Tour of Rwanda, anche se quest’anno ha vinto una tappa del Tour de la reconciliation in Costa d’Avorio e due prove della Rwanda Cycling Cup, Gasore fa il gregario: “Aiuto e insegno. Tiro, spingo, porto acqua, e poi spiego quello che si deve fare ai miei compagni più giovani”. Ventinove anni (con beneficio d’inventario), sposato e con due figli (“Gli insegnerò ad andare in bici, e ad amarla”), cristiano avventista, Gasore vive con una certezza: “La bici rimarrà nella mia vita. Continuerò con la bici-taxi, farò l’allenatore, non lo so. Ma so che la bici mi ha cambiato la vita e la mia vita è questa”. E sorride, di un sorriso largo, lento, antico.
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