PROFESSIONISTI | 24/05/2016 | 07:34 215 Non ha un preparatore, non ha un medico, non ha un dietologo, non ha uno psicologo, non ha un motivatore, non ha un eroe e non ha un modello, non ha neanche un prete con cui chiacchierare. Da pochissimo ha un procuratore. “Non che il procuratore sia più importante del preparatore, magari prima o poi avrò anche un preparatore, ma intanto mi sono abituato ad arrangiarmi da solo”.
Matteo Busato è l’anarchico, più che l’anarchico è l’autonomo, più che l’autonomo è l’autarchico del ciclismo professionistico italiano. Fa da sé e, a occhio, non fa per tre ma almeno per nove, perché oltre a quelle otto figure, lui fa anche il corridore. Veneto di Castelfranco, 28 anni, gli ultimi cinque pedalati fra dilettantismo e professionismo, fra campioni eccellenti e talenti emergenti, ma anche fra eterni sognatori e inguaribili amatori.
Famiglia rotonda: “Papà Giovanni, operaio pensionato, grande appassionato. Mamma Annalisa, infermiera pensionata, che di ciclismo non capisce tanto. Mia sorella Cinzia, due figli e un lavoro al supermercato, è lei che mi vizia con i dolci. E mio fratello Mauro, che ha corso fino ai dilettanti, è lui che mi spinge di più, forse perché si rivede in me”. Esordio immediato: “La prima bici a sei anni, ma non me la ricordo. La prima maglia rossa e gialla, quella del Giorgione. La prima vittoria da G1, non sapevo neanche di avere vinto, me lo hanno detto dopo l’arrivo”. Atleta fiorito: “Uno e 79 per 66, 48 battiti a riposo, 175 alla soglia, 43 di scarpe”. Natura integrale: “Testardo, che nel ciclismo è un pregio”. Caratteristiche ignote: “Bene in salita, ma non sono uno scalatore. Veloce in volata, ma non sono un velocista. Devo ancora scoprire quali sono i miei terreni ideali”.
Intanto Matteo sta vivendo il Giro d’Italia: “Del primo Giro, nel 2015, ricordo il secondo posto nella tappa di Forlì, dopo quella fuga organizzata con Boem, Malaguti, Marangoni e Gatto, che forò a pochi chilometri dall’arrivo, poi la folla nella tappa di Marostica, vicino a casa, e la fatica, sempre, non pensavo che ne potesse esistere così tanta. Del secondo Giro, questo, ricordo la gente in Olanda, poi la tappa di Praia a Mare, ottavo, giocandomela, e non è finita qui”. Lui guarda alle fughe: “Per prendere quelle giuste bisogna avere gambe e poi colpo d’occhio. Perché una fuga dipende dall’attimo, dal punto in cui nasce, dai corridori che la compongono, dalle squadre che rappresentano, e poi da te stesso, dalla voglia di crederci e non mollare”.
“Buso” – così lo hanno ribattezzato in gruppo – sostiene che “il bello del ciclismo sta nella libertà e nella liberazione, cioè nel liberarsi di tutto quello che ti assedia e soffoca nella vita normale, e così entrare in un altro mondo e dimensione, fatta di leggerezza e spensieratezza. Prendi la bicicletta, spegni il telefonino e vai”. Sostiene anche che “il ciclismo è fatto di squadre e di un gruppo, ma sulla bici sei da solo e te la devi vedere innanzitutto con te stesso”, e che “a volte mi alleno con Matteo Tosatto e Marco Bandiera, Tosatto consiglia regole e regala consigli, Bandiera mi tira sempre il collo”. Sostiene infine che “dopo un secondo posto al Giro, al Trentino e alla Vuelta a Burgos, avrei proprio bisogno di una vittoria, per sbloccarmi di testa, un po’ come nel calcio un attaccante che cerca il gol”. Di una cosa è certo: “Non sono capace di risparmiarmi, figurarsi di ritirarmi. Forse perché sono orgoglioso, vivrei il ritiro come un disonore”. Lui, piuttosto, sulla bici ci morirebbe.
E questo si era capito. Gli amici del fan club lo seguono in corsa, gli organizzano le cene, gli stampano le magliette. Con il cognome che ha, si potrebbero inventare facili slogan, tipo “Mi sono innamorato di Matteo Busato”. “Mica male – ammette -. Gliene parlerò”. Marco Pastonesi
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