VINCENZO PANNONE, FAVOLA A DUE RUOTE

STORIA | 22/04/2016 | 00:46
Il ciclismo - e non solo quello campano – non può fare a meno di raccontare la bella favola sportiva di Vincenzo Pannone.
Nativo di S. Antonio Abate, città a pochi chilometri da Napoli, classe 1954, tenace scalatore e, all’occorrenza, corridore completo, fin dagli esordi, avvenuti nella categoria esordienti, si rivelava uomo vincente.

E quando non concludeva da solo la corsa a braccia alzate, segno inequivocabile di grande intelligenza tattica e di freschezza atletica, era comunque uno dei protagonisti indiscussi della gara, quello che propiziava la fuga decisiva o che faceva la dura selezione.

Uno dei cantori più assidui ed eleganti delle gesta di Pannone è stato il prof. Mario Folliero – la sua pedalata sciolta, rotonda, sembrava un deridere l’affannarsi degli altri – che sulle pagine di Tuttociclismo bene ha saputo esaltare il suo spirito combattivo con bellissimi pezzi di antica scuola giornalistica.

Nella rassegna stampa, gelosamente custodita e risalente al 1969, è facile imbattersi in nomi di atleti importanti negli ordini di arrivo, corridori giunti al professionismo, molti di questi ai vertici mondiali, quali Claudio Corti, vincitore del Giro Baby 1977, a cui Pannone partecipò, classificandosi al decimo posto e lo vide più volte in testa al gruppo, soprattutto quando la strada saliva, facendogli guadagnare i complimenti del ct Edoardo Gregori – “se devo fare il nome di un ragazzo che mi ha impressionato, senza esitazione, faccio il nome del napoletano Pannone”.

Suoi autorevoli e vincenti compagni di gruppo erano Carmelo Barone, Vito Di Tano, Marino Amadori, Giuseppe Montella, Vincenzo De Caro, Palmiro Masciarelli, Claudio Savini, Stefano Giuliani, Luciano Rabottini, i fratelli Bevilacqua, gli spagnoli Vincente Belda e Angel Arroyo, Marco Vitali, gli svedesi volanti Tommy Prim e Alf Segersaal, poi vincitore del Giro Baby 1978.

Il grintoso Pannone sapeva anche allenarsi con profitto, 140 – 150 Km, quasi tutti i giorni, rigorosamente da solo e col cronometro, regalatogli da un tifoso di Gragnano.
Agerola, Chiunzi, Monte Faito, Agropoli, i percorsi maggiormente frequentati.
Paesaggi mozzafiato che ispiravano le imprese.

Venne notato dagli addetti ai lavori per il grande salto al professionismo dopo il mondiale di Ostuni del 1976 ma la Molteni uscì di scena e non se ne fece nulla; successivamente, Mealli voleva portarlo alla Magniflex col patto di rimanere per quattro mesi dilettante, con trasferimento in Toscana. Declinò l’offerta. Voleva subito passare professionista. Nemmeno con la Scic il grande salto si concretizzò.
Intanto, l’amico di tante corse, Vincenzo De Caro, dopo avere fatto uno stage in Toscana,  passava pro con Zandegù.

Il rapporto col ciclismo che conta terminava con la categoria dilettanti.  Ma il ricordo più bello ed esaltante è la vittoria, datata 1979, nella cronoscalata Reggello – Vallombrosa dove tuttora detiene il record assoluto della scalata in cui coprì i 13 chilometri in 31’ e 22, alla media di km/h di 24.853.

Al noto giornalista Alberto Polverosi, nel dopo gara, confidò che “il suo unico scopo era passare professionista e che tutti i più forti atleti campani quali Montella, Pastore e Saccone, si erano trasferiti al nord”.

Gianni Bugno, vincitore della tappa del Giro d’Italia del 1990 a Vallombrosa, non riuscì a battere il suo record di scalata, come Adriano De Zan ricordò durante la telecronaca di quel giorno.

Mentre raccolgo gli appunti ascoltando la voce ancora emozionata di Vincenzo, scorgo i suoi occhi umidi, pieni di nostalgia e di rimpianto per l’occasione perduta.
Ma il tempo, giusto ed imparziale giudice, non ha modificato il carattere dell’atleta che è stato.

I canuti tifosi di un tempo - nella foto Rodella del Giro Baby del 1977 - viene ritratto con Vincenzo Milano, mitico ct della Campania, alla partenza di una tappa di montagna - gli estimatori di oggi che ne attestano la serietà, seguono i preziosi consigli per la preparazione atletica e la strategia di gara, il prestigioso albo d’oro, non possono relegarlo nel dimenticatoio. Devono necessariamente tributargli il giusto riconoscimento.

Domenico De Liguori      

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