QUINTANA. «Il grande obiettivo è il Tour»

PROFESSIONISTI | 25/02/2016 | 07:16
Il Negrito, così lo chiamano in fa­miglia, conosce bene la realtà di Muzo, a 200 km da casa sua, va­le a dire Combita, nel dipartimento di Boyacà. Nairo Quitana nella vita ha avuto successo ma non dimentica le sue origini. Ne parla sempre vo­lentieri.
«In quella zona ci sono le miniere di smeraldi. Rappresentano una delle ricchezze della Colombia. La nostra forza, il nostro colore, il nostro carattere» inizia a raccontarci pensando ai guaqueros, che vanno a cercare nella terra smossa degli scavi per le miniere qualche smeraldo residuo. Trovarlo cambierebbe loro la vita.

Abbiamo incontrato il 25enne colombiano della Movistar al Tour de San Luis, da lui vinto nel 2014, l’anno in cui poi ha vinto il Giro d’Italia, e che quest’anno ha incoronato suo fratello mi­nore Dayer. Il Condor, questo il so­prannome affibiatogli dai suoi tifosi, ci ha raccontato della sua missione in giallo per il 2016, il suo reto (obiettivo) è vincere il Tour de France, ma non solo.

Ti piace raccontare della tua terra?
«Sì, sono felice che tramite le mie gesta e la mia popolarità la Colombia venga esaltata in positivo. Purtroppo il mio paese è conosciuto per cose brutte e per la guerra, ma chi lo critica spesso non ci è mai stato per ve­dere cosa può offrire di bello, per capire quanto questa nazione stia crescendo e come la sua gente sia buona. Sono cresciuto in una zona di montagna in cui c’è tanta passione per il ciclismo: ora con alcune aziende stiamo cercando di sponsorizzare qualche piccola squadra, io sto aiutando in particolare la squadra di Boyaca con il progetto “Raza de Campeones” che si occupa di formazione e avviamento al ciclismo di bambini e ragazzi dai 5 ai 19 anni, per farli crescere e arrivare alle categorie maggiori, per dar loro una chance di diventare corridori o promotori a loro volta della bicicletta».

E con ciò che comporta andare forte in bi­c­i come te la cavi?
«La fama ha dei lati positivi e altri ne­ga­tivi. Poter aiutare gli altri, offrire op­portunità di lavoro, rendere le persone felici con quello che faccio è stupendo, d’altro canto ho provato sulla mia pelle aspetti spiacevoli, come chi approfitta del mio nome, lo utilizza senza la mia autorizzazione per chiedere favori o ven­dere merchandising. Le persone in buona fede pensano che siano miei fa­miliari o persone delegate da me a promuovere certe iniziative, invece si tratta di una bugia. Le autorità devono controllare queste truffe, vorrei che nessuno venisse fregato usando il mio nome, de­positato in Co­lombia insieme a tutti i miei soprannomi e nickname come Nairo­man, Nairoquin, Nairo­QuinCo. Non mi piace inoltre che, nel periodo in cui non ci sono gare, certi media pur di parlare di qualcosa inventino notizie o creino casi sul nulla».

Nel tuo paese come vivono il tuo successo?
«Tanti tifosi vengono a visitare casa mia da tutto il mondo, vogliono conoscere i miei genitori, vedere dove sono cresciuto, andato a scuola, mosso le prime pedalate. Fanno foto con mam­ma Eloi­sa e papà Luis, chiedono informazioni, di vedere la mia stanza, non è un mu­seo ma in futuro magari... I miei trofei più importanti sono tutti lì, mam­ma non mi perdonerebbe se li te­nessi nella mia casa di Monte­car­lo o li dessi a qualcun al­tro. Sono molto le­ga­to alla mia famiglia, ai miei fratelli Dayer e Wil­lin­g­ton Alfre­do e alle mie sorelle Nelly Espe­ran­za e Lady Jaz­min. Sono mol­to orgogliosi di me».

Se sei già così famoso avendo fatto due volte secondo al Tour, cosa succederà il giorno in cui lo vincerai?
«Non ci voglio pensare... (ride, ndr). Il piazzamento al Tour 2013 arrivò quasi per caso, questo non significa che qualcuno me l’abbia regalato, ma diciamo che non ero cosciente di cosa avevo fat­to mentre l’anno scorso ho svolto una preparazione focalizzata per la Grande Boucle, mi ci sono avvicinato in modo molto più meticoloso, ho fatto tanti sforzi per raggiungere il podio. I due risultati però hanno lo stesso valore per me. Per il 2016 non ho cambiato preparazione, l’anno scorso ho per­so tempo tra ventagli e cadute in Olan­da, per piccoli errori o sfortuna, non perché non ero in condizione. Il mio programma gare mi permetterà di non arrivare stanco al grande obiettivo dell’anno».

Che relazione hai con Froome, l’uomo che per due volte di fatto non ti ha permesso di conquistare la maglia gialla?
«Chris per me non è un nemico, ma un semplice rivale in bici. Militiamo in squadre diverse, ma non abbiamo mai avuto nessuna discussione. Non parliamo quasi mai, ci salutiamo e nulla più, ma mi sembra una bel­la persona».

I tuoi primi ricordi legati alla bici?
«Ho avuto un’infanzia felice, ricordo le gite per la cordigliera delle Ande con un camioncino in cui stavamo tutti: fratelli, sorelle, cugini, zii e vicini di casa, con galline e verdure e i bagni al fiume; anche se per certi aspetti è stata dura. Come quando per andare a scuola non c’erano i soldi per il pullman per tutti. Mio padre ci teneva che tutti e 5 i figli studiassero, a costo di rinunciare a qualche comodità come il pullmino che ci portava a scuola. Toccò a me perché ero il maggiore dei figli maschi. Ogni giorno dovevo percorrere 17 chilometri sterrati a piedi per raggiungere l’istituto Alejan­dro Humbolt de Ar­ca­bugo a Barragan e altrettanti al ritorno. Anche se sapevo già guidare, a soli 14 anni non potevo usare l’auto così la soluzione fu la bici, che comprai con i soldi guadagnati producendo e vendendo il miele con papà e nel periodo trascorso come tassista abusivo, di notte con mio fratello. Costò 30 dollari, era di ferro, pesantissima, ufficialmente di seconda mano, ma chissà per quante mani in realtà era passata».

Allenamento forzato.
«Per me era come una cronometro: il bus su cui sedevano i miei fratelli im­piegava 15’, io in bici 45’, sempre se non foravo o avevo altri intoppi, come quella volta in cui un camion mi trascinò fuori strada e mi dovettero portare all’ospedale d’urgenza. Ad ogni mo­do, ogni giorno dovevo scalare l’Alto del Chote, una salita all’8% con le ciabattine e lo zaino pieno di libri sulle spalle. Nonostante la fatica, pedalare iniziò a piacermi e mia sorella Lady, che mi vedeva così entusiasta, qualche volta venne con me perché ad andare sul bus si annoiava. Un giorno ci po­temmo permettere una bicicletta anche per lei, per fare più in fretta però in salita la legavo con una corda a me. La prima volta che incontrai un gruppo di ciclisti veri, riuscii a tener loro testa e così in cima alla salita pensai: li batterò tutti. Chiesi a mio padre di poter correre, la mia prima bici da corsa comprata con i risparmi di mio padre e di mia sorella maggiore, costò 270.000 pesos. Anche questa era un ferro vecchio, un modello che aveva almeno 40 anni, ma che pesava la metà della mtb che avevo usato fino ad allora. La prima gara è stata una sfida con El Pistolas, figlio del padrone del supermercato del paese, 32 chilometri fino all’Alto de Sota e ritorno, vinsi e mi guadagnai così i soldi per il mio primo casco, che da lì a poco mi sarebbe servito per correre».

Così sei arrivato al primo ingaggio.
«Fernando Florez, direttore di Inde­portes, istituzione politica che appoggiava gli sportivi, mi sottopose al mio primo test con Vincente Belda, diesse del team “Boyaca es para Vivirla”, nuovo team Continental sbarcato in Europa. Risultarono 420 watt contro i 370 dei miei pari età, meglio di un corridore professionista. Da lì mi diedero una bici in carbonio Orbea e un piano di allenamento. Ricordo come fosse ieri il primo test da professionista con i medici della Movistar: dissero che quei valori da superdotato erano certamente frutto di un errore della strumentazione. Il cicloergometro segnava 7 watt per chilo, mentre un ciclista normale sta fra i 5 e i 6. Mi fecero ripetere il test tre volte, dopodichè esclamarono: “questo bisogna farlo firmare subito”».

Punterai tutto sul Tour o ti sei posto altri traguardi per quest’anno?
«Ogni volta che mi presento a una cor­sa voglio lottare almeno per il podio, è la mia caratteristica e la squadra ha adottato la mia stessa filosofia, mi sprona a fare bene e a puntare in alto ma la nostra missione principale resta l’assalto al Tour. Ci arriverò correndo la Vuelta Catalunya in cui mi piacerebbe far be­ne, la Vuelta Pais Vasco, qualche prova delle Ardenne e il Giro di Romandia. Avrò meno giorni di corsa nelle gambe, ma la motivazione di sempre».

La Grande Boucle non è un’ossessione per te come per altri atleti...
«Non soffro di incubi come capitava a Contador che immaginava di cadere o avere chissà quali problemi in corsa, io sono tranquillo. Se lavoro bene, andrò bene. Spero di avere anche un pizzico di fortuna, se così sarà i risutati devono arrivare perché il lavoro paga. Il mio primo ricordo del Tour? Risale proprio ad Alberto: guardando in tv i suoi Tour, mi impressionavano soprattutto la struttura della corsa e le bellissime bici dei corridori, sognavo un giorno di averne una così. Mai avrei immaginato allora di poter lottare con il Pi­sto­le­ro sulle strade del Tour, ma la prima volta che lo incontrai alla Vuelta Catalu­nya nel 2011 avevo già aquisito la fiducia per pensare che un giorno ci sarei arrivato. A gareggiare a un certo livello ho iniziato tardi, allora non conoscevo la storia del ciclismo, ora sì e ho un grande interesse soprattutto per il mo­vimento colombiano, in continua crescita».

Quando hai realizzato di avere qualcosa di speciale come ciclista?
«Quando vincevo contro ragazzi di ca­tegorie maggiori. Capitava che correvo con loro quando avevo bisogno di sol­di, pagavano di più. Un giorno vinsi un circuito ma fui squalificato perchè fui scoperto: avevo 17 anni e correvo con gli Elite, i diesse dei miei avversari si la­mentarono e fui squalificato. La salita per me è allegria, emozione, il terreno dove mi sento meglio e a volte vinco (sorride, ndr). In gara non puoi godertela, ma in allenamento puoi ammirare paesaggi magnifici. Alpi o Pireni? Me­glio le prime, sono state più buone con me, offrono sempre un grande spettacolo di gente e mi piacciono di più per i bei paesaggi che attraversano. Cosa è cambiato da quando sono arrivato in Europa quattro anni fa? Un sacco di cose: ho una miglior qualità di vita, non solo a livello economico, e sono più maturo. Ho al mio fianco Paola e so­no diventato papà della nostra piccola Mariana».

Se non fossi uno scalatore, che tipo di corridore avresti voluto essere?
«So che Indurain ammirava gli sprinter, io adoro la pista. Avrei voluto essere un grande pistard. Non mi sono mai neanche allenato in un velodromo, ma sono stato spesso a guardare le corse e mi piacciono particolarmente. Offrono uno spettacolo che si deve pagare come quando si entra in uno stadio per vedere una partita di calcio o un incontro di tennis. È ammirevole vedere come van­no questi funanboli della bici, la gente non ha idea di cosa voglia dire pedalare senza freni e con il rapporto fisso, la pista regala sempre delle emozionanti esibizioni di ciclismo».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di febbraio
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