NIPPO FANTINI. Sciotti: Un nuovo modello di team

PROFESSIONISTI | 23/02/2015 | 07:33
Valentino Sciotti è il patron della NIPPO-Vini Fantini Ci­cli De Rosa e la sua passione per il ciclismo è quasi viscerale. Quando parla dei corridori lo fa da buon padre di famiglia che si prende cura dei suoi ragazzi e da loro pretende buone maniere, prima ancora di esigere risultati. Lo abbiamo intervistato nel suo splendido ufficio nel castello di Ortona, in occasione della presentazione ufficiale del team. Al mattino, con il gruppone dei 50 aggregati alla squadra, c’era anche lui a pedalare tra San Gio­vanni Teatino e Chieti.

Quanti chilometri percorre in un anno in sella alla sua De Rosa?
«In Italia non tantissimo, negli States un pochino di più. Questa mattina è la quarta volta che uscivo in bicicletta. Quando sono nella mia casa a Miami farò 1200-1300 chilometri: lì è tutto piatto e ho degli amici che la prendono con molta più cal­ma…».

Corre anche a piedi?

«Si, abbastanza. Visto che sono tanto in giro per il mondo (circa 250 giorni all’anno, ndr) mi tengo in for­ma facendo jogging. Nel 2001 ave­vo pre­so un po’ di pe­so e mi man­cava molto lo sport, così ho iniziato a correre e ad affrontare le maratone, fino a oggi ne avrò fatte una ventina. Il mio primato personale è di 3 ore e 4 minuti, ci sono già riuscito tre volte. Il sogno di ogni maratoneta è quello di scendere sotto le 3 ore, spero di riuscire a farcela presto».

Alla presentazione del vostro team c’era anche il Ct della nazionale Cassani. Mi ha confidato che aveva appena corso una maratona in maniera tranquilla… 2 ore e 59 minuti.

«Ci siamo in­con­trati più vol­te a New York durante la gara, ma lui fa parte di un’altra categoria: nel mo­mento in cui lui inizia a spingere, io inizio a rallentare».

Come si definirebbe?

«Un inguaribile so­gna­tore. Ho iniziato a correre in bici nel ’74 durante l’austerity. Comprai una bici pagandola a me­tà con mio padre: all’epoca lavoravo a caricare i ca­mion di uva da tavola destinata alla Germania. Inizialmente ero ap­passionato di calcio, ma ben presto la bicicletta ha conquistato sempre più spazio nel mio cuore. Il sogno era quello di diventare un giorno un professionista. Non ci sono riuscito da atleta, ce l’ho fatta come sponsor».

Il ciclismo le ha regalato grandi soddisfazioni come sponsor, ma anche profonde delusioni…

«Per la positività di Danilo (Di Luca, ndr), ho vissuto una grande crisi interiore. Non sapevo se ero ancora adatto a questo sport o se questo sport fosse ancora adatto a me. In questi anni dal mondo del ciclismo ho avuto davvero tante soddisfazioni, ma le delusioni, purtroppo, non sono mancate. Per me i ragazzi sono da sempre come parte della mia famiglia e se uno di questi mi tradisce, è come se mi ferisse mortalmente. Per questa ragione mi sono preso un po’ di tempo prima di rientrare. Ho dovuto sbollire la rabbia e la delusione. Non è sta­to un momento facile. Mi sono interrogato su dove avevo sbagliato, e alla fine ho deciso di riprovare, però in maniera più diretta, cercando di controllare più da vicino la società. Cosa mi ha indotto a tornare? La passione. La mia ma anche quella delle persone comuni, quella dei bimbi. Ho capito che in questo sport non deve vincere la negatività, che deve trionfare la speranza e che dovevo provare a fare qualcosa di veramente diverso. Perché non possiamo sempre lamentarci e ba­sta, dobbiamo dare il buon esempio, contribuire al cambiamento. E come sponsor mi sono ripromesso di creare una squadra che non doveva puntare in maniera maniacale alla vittoria, perché vincere deve essere un effetto collaterale del lavoro svolto. Devo mostrare che è possibile creare una via che porta a un ciclismo diverso, che ci si può dedicare ai giovani per in­se­gnare loro valori veri e farlo con campioni che hanno sempre corso dando un messaggio positivo e possono portare un ­segnale forte per il fu­turo: proprio co­me Cunego».

In squadra c’è anche un atleta che ha avu­to tantissima sfortuna in passato: parliamo di Daniele Colli, che ha superato un tu­more e un grave infortunio, ma ogni volta si è rialzato e rimesso in gioco. Può essere considerato il simbolo di questo team?

«È uno dei nostri simboli, ma non è il solo».

La NIPPO - Vini Fantini si avvarrà an­che della collaborazione di professionisti provenienti da altri sport.

«Il mondo del ciclismo spesso si basa su ex-professionisti che non solo diventano direttori sportivi, ma anche manager. Io invece avevo maturato l’idea che ci fosse bisogno di persone diverse, che portassero in questo am­biente idee nuo­ve e un approccio diverso da quello avuto in questi anni. Quando ho conosciuto Francesco Pe­losi (il team manager, ndr) ho capito che parlavamo la stessa lingua, il nostro modo di intendere lo sport del ciclismo era il medesimo. Lui è il primo tassello di questo nuovo modo di pensare il nostro sport».

Torniamo sul piano personale: qual è sta­ta la sua prima bicicletta?

«Una Legnano con il classico colore dell’epoca, verde oliva, un pezzo d’acciaio che forse pesava 20 chili, con cambio Campagnolo. Era piuttosto pesante, ma in quel periodo non potevo permettermi nulla di meglio. Quando poi ho iniziato a lavorare mi sono tolto qualche piccola soddisfazione, ma ho compreso ben presto che a fare la differenza non sono le biciclette, ma le gambe…».

La possiede ancora quella vecchia Le­gnano?

«No. Dal 2001 sponsorizziamo una mis­sione nel deserto del Burkina Faso portata avanti da mio zio, che è un frate francescano. In occasione di uno di questi Tour mi hanno manifestato il desiderio di avere qualche bicicletta, così ho riempito un container di tutte le biciclette che avevo e le ho mandate laggiù, compresa la mia Le­gnano. Erano tutte una parte di me, avevano tutte un grande valore affettivo, ma le ho sacrificate volentieri per rendere felice qualcuno».

La prima gara ciclistica alla quale ha as­sistito?

«Un Trofeo Matteotti, ero un bimbo e ci andai con papà. La cosa che mi stupì di più fu il mare di gente che si era as­siepata ad assistere, qualcosa che pur­troppo ora non succede più. La no­stra missione è cercare di tornare a ri­por­tare la gente sulle strade. Non solo al Giro, ma in tutte le corse, anche le me­no blasonate».

La prima gara alla quale ha partecipato?

«È stata tra Chieti e Pescara, ricordo che non avevo nemmeno la divisa da ci­clista. Con me avevo solo un pantaloncino da calciatore e quando sono arrivato stavano già premiando il vincitore sul palco. C’era solo una persona ad aspettarmi, mio padre, ero proprio l’ultimo degli ultimi. Non le nascondo che la delusione fu enorme, ma non mi die­di per vinto. Mi dissi: parto da qui e posso solo migliorare. Dopo otto mesi, la prima coppa: passai la notte a rimirarla».

Come vinse quella corsa?

«Ero andato in fuga con un ragazzo che andava molto forte, così mi sono messo dietro e non gli ho dato nemmeno un cambio, anche perché non ero in grado di farlo. Nel finale lui ha forato e io mi sono ritrovato da solo».

Qual è stato il campione che l’ha appassionata di più?

«Il ciclismo l’ho sempre seguito. Mia mamma era una grandissima appassionata e guardavamo insieme tutte le tappe del Giro d’Italia. Quello che più di tutti ha incatenato il mio cuore è sta­to Francesco Moser. Mi piacevano la sua tenacia, la sua voglia di attaccare sempre e non darsi mai per vinto. Mai appagato, sempre alla ricerca di qualcosa in più».

Partner della squadra è la NIPPO, un vero colosso del Giappone: per numeri e potenzialità potrebbe anche portarvi nel Wolrd Tour…

«Quello giapponese è un mercato mol­to interessante, con il quale anche la Vini Fantini lavora tantissimo. È per noi un’opportunità, e penso lo sia an­che per loro. La Nippo è un gruppo im­menso, che conta più di 50 mila dipendenti. La missione è una e una sola: farli innamorare sempre più di questo sport. Per questo dobbiamo fare qualcosa di più e di diverso».

In Giappone il ciclismo su pista è molto popolare, come lo era mezzo secolo fa in Italia. Secondo lei ritornerà anche da noi a risplendere?

«Quando ero ragazzino vivevo nel mito di Koichi Nakano, il supercampione del keirin che guadagnava all’epoca miliardi quando in tutta Italia e Europa non lo conosceva nessuno e nessuna squadra l’avrebbe mai potuto ingaggiare. Anche loro hanno avuto un momento di grande decadenza perché il ciclismo giapponese era molto legato al mondo delle scommesse, ma oggi la passione sta tornando su quei livelli e il fatto che questa volta abbiano de­ci­so di investire in un team dell’Oc­ci­dente, ci deve far sentire orgogliosi. A proposito di velodromi: lo sa che la Nippo è il leader as­soluto nella costruzione di ve­lodromi? Il 100% dei velodromi in Giappone li hanno realizzati loro. E sa quanti ce ne sono in quel Paese? Più di sessanta. Se penso alla no­stra realtà...».

Nel 2020 le Olimpiadi torneranno a Tokyo: come im­magina il team Vini Fan­tini tra cinque anni?

«Io mi auguro che sia cre­sciuto tanto. Che sia una realtà, e perché no, an­che un piccolo grande mo­dello. Se sa­remo bravi, po­tremmo es­sere qualcosa di molto più grande. Mol­to, se non tantissimo, dipenderà da noi. Da noi dirigenti e dai corridori. Ma molto anche dal ciclismo. Una cosa è certa, ci sarà tanto da lavorare. Ma non è un problema: lavorare non mi ha mai spaventato».

Diego Barbera, da tuttoBICI di febbraio
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