SIMONETTO. La tutela della salute non è solo lotta al doping

DOPING | 03/07/2014 | 10:56
Per chi volesse dargli un occhio, basta che vada sul sito del Ministero della Salute, che la scorsa settimana ha pubblicato il «report» sui controlli antidoping predisposti nel corso dell’anno 2013, dalla Commissione per la Vigilanza ed il controllo sul Doping e per la tutela della salute nelle attività sportive (CVD), che si è avvalsa anche della preziosa per non dire fondamentale collaborazione dei NAS Carabinieri. I controlli hanno riguardato sia le manifestazioni delle Federazioni Sportive Nazionali (FSN) e delle Discipline Sportive Associate (DSA), che quelle degli Enti di Promozione Sportiva (EPS). Nel corso di questi eventi e dei controlli fuori gara sono stati sottoposti a controllo antidoping 1.390 atleti, di cui 916 maschi (65,9%) e 474 femmine (34,1%).

Dai risultati delle analisi di laboratorio è emerso che dei 1.390 atleti controllati 42 sono inizialmente risultati positivi ai test antidoping. Gli accertamenti sugli atleti risultati positivi, tuttavia, hanno permesso l’archiviazione di 3 casi: positivi al budesonide, i tre atleti hanno poi presentato idonea documentazione. Da segnalare la presenza di 18 atleti con un Profilo steroideo anomalo (rapporto T/E maggiore di 4) ma con IRMS negativo. Si sono inoltre registrati due casi di atleti con profilo hCG anomalo: poiché tale alterazione potrebbe essere determinata da particolari condizioni fisiologiche o da specifiche patologie, gli atleti sono stati invitati a consultare il proprio medico di fiducia ovvero uno specialista endocrinologo.
A conti fatti, complessivamente sono risultati positivi 39 casi, pari al 2,8% degli atleti sottoposti a controllo. Di loro, quattro erano donne.
 
Nel contesto dei 39 atleti risultati positivi, i dati evidenziano che: la percentuale degli atleti che ha assunto una o due sostanze vietate è stata pari all’ 87,2%. In particolare, il 74,4% degli atleti è risultato positivo ad una sola sostanza, mentre il 12,8% di essi a due sostanze. Due atleti sono risultati positivi a tre sostanze, mentre 3 atleti sono risultati positivi a quattro, cinque o sei sostanze differenti.

Il 47,8% dei 39 atleti è risultato positivo agli anabolizzanti; nel 26,1% dei casi agli ormoni e sostanze correlate e nel 13% agli stimolanti. Nessun atleta è risultato positivo ai cannabinoidi e ai β2-agonisti.

Interessante osservare come i dati illustrati nel «report» evidenzino delle differenze di genere rispetto al consumo da parte degli atleti di sostanze vietate per doping. Le atlete non sono mai risultate positive agli ormoni e sostanze correlate, ai diuretici, ad agenti mascheranti e agli stimolanti; per contro, le quattro atlete risultate positive hanno assunto un agente anabolizzante, un cannabinoide, un corticosteroide ed un β2- agonista. Gli atleti di sesso maschile sono invece risultati positivi soprattutto agli agenti anabolizzanti (35,7%) ed agli ormoni e sostanze correlate (19,6%).

Per commentare questo importante lavoro, abbiamo contattato uno dei componenti della Commissione (nominato in qualità di rappresentante del Ministro della Salute), il dottor Luigi Simonetto, specialista in medicina dello sport, nonché presidente della Commissione tutela della salute e medico federale presso la Federazione Ciclistica Italiana. Luigi Simonetto, classe ’52, nato a Guanzate in provincia di Como e residente con la signora Giancarla e i figli Silvia e Michele a Mozzate. Dal 1981 è nel ciclismo. Buon calciatore prima, si è convertito al ciclismo e alla MTB poi. A parte i primi tre anni (’81-’83) nei quali ha ricoperto il ruolo di medico di Gara nelle corse targate Rcs (quelle Gazzetta), poi è entrato a far parte della Federazione. Inizialmente  come medico di riferimento per il settore pista e poi per la nazionale femminile. Dall’85 al ’91 è stato il medico della nazionale professionisti di Alfredo Martini e, dopo 7 anni di questa esperienza, ha volontariamente lasciato questo ruolo per svolgere la propria azione all’interno della Commissione sanitaria nazionale e contribuire, con la propria esperienza e le proprie competenze, a migliorare un ambiente con sempre più evidenti problemi in tema di etica e di rispetto delle regole . Nel 1991 è passato pertanto alla allora Commissione Sanitaria presieduta da Dal Monte (e successivamente dal compianto Marcello Faina) e dal 2008 è presidente della Commissione Tutela Salute della Federciclismo.

Dottore, se si leggono le 80 pagine del rapporto della CVD viene fuori una situazione molto sconfortante. A livello amatoriale, in senso assoluto, il doping regna sovrano…
 «Che il mondo amatoriale non fosse una realtà immune da certe tentazioni o da certe abitudini apparteneva e appartiene alla logica delle cose, anche perché il contesto in cui anche l’amatore si muove è pienamente correlabile a quello delle altre categorie. Che però nell’ultimo decennio in particolare tutto si sia ulteriormente acuito è sotto gli occhi di tutti e una serie di indicatori lo attestano senza timori di smentita».

Possiamo dire che il mondo degli amatori è più preoccupante di quello dei professionisti…
«Possiamo certamente affermarlo, in particolare per l’estensione del fenomeno dal momento che i numeri in gioco sono davvero importanti. E poi c’è una deriva in atto che faticosamente si cerca di contrastare e che si avvia sempre più a rappresentare un vero problema di sanità pubblica».

Dai vostri dati chi ricorre al doping sono uomini o donne con età che supera i 40. Ma vi siete fatto un’idea del perché questi soggetti ricorrano al doping per primeggiare?
«Al primo livello c’è la voglia di misurarsi con se stessi e scoprire i propri limiti e laddove non mi basta scoprire i miei limiti, li voglio AMPLIFICARE. Al secondo livello c’è la voglia di confrontarmi con i limiti degli altri e se possibile batterli in TUTTI I MODI. Poi c’è anche un terzo livello: gli INTERESSI ECONOMICI PERSONALI. Il mondo amatoriale è ormai invaso da una serie di interessi determinati dal mercato del settore: biciclette, accessori e tutto il grande mondo degli integratori. A questo mercato florido,  se ne aggiunge anche un altro, che va a creare INTERESSI ECONOMICI SOCIETARI. Insomma, anche le squadre vogliono vincere e primeggiare per trovare sponsor, visibilità etc etc etc».

Guardavo una tabella del Report della CVD e ho notato che sport come il pugilato o la pesistica – discipline chiaramente a rischio - sono controllati pochissimo. Otto atleti in un anno e un solo evento preso in considerazione all’anno. Come si spiega questa differenza con il ciclismo: 323 i ciclisti, 8 della pesistica e 4 del pugilato: c’è una bella differenza.
«La CVD nella pianificazione della propria attività antidoping che avviene con delega ad un apposita sottosezione di lavoro, si deve scontrare con una serie di problematiche che sono di ordine generale: difficoltà logistica di raggiungere certi eventi e certi contesti, la difficoltà delle risorse economiche a disposizione etc. Ma quello che influisce - e molto - è che non esiste attualmente un criterio che costituisca un dovuto protocollo da parte delle Federazioni nazionali di rendere oggettivo, trasparente e consultabile il calendario di attività».

Cioè la CVD non sa quali eventi andare a controllare, perché alcune federazioni, o discipline associate o enti di promozione non dicono dove si svolgono le gare?…
«Esattamente. Ma alcune Federazioni - come quella ciclistica per esempio - hanno invece da anni attivato un livello di collaborazione molto forte con tutte le realtà istituzionali, in termine di collaborazione e rendono del tutto trasparente la propria attività».

Ma il CONI non dovrebbe sensibilizzare queste Federazioni reticenti?
«Penso sia legittimo pensare che debba essere fatto qualche cosa in più del semplice sensibilizzare. La difficoltà che stiamo riscontrando tutti è che permane una inaccettabile situazione di non coordinamento tra i due enti che nella realtà italiana sono deputati ai controlli. Il perché non vi sia un efficace coordinamento risiede in vari livelli di problematiche, che non sono semplicemente riconducibili ad una buona o cattiva volontà degli attori in gioco. Aver evidenziato nel documento Reporting system della CVD le differenze e le analogie, tra la stessa CVD ed il Coni, nell’attività antidoping significa porre le basi per una opportuna fase di analisi e confronto tra le parti per la necessaria revisione dell’atto di intesa del 2007 tra il Ministero della salute ed il Coni. Oggi esiste una suddivisione dei campi di competenza che di fatto ha significato “tu lavori a destra e io a sinistra”, e poi ognuno fa gli affari suoi. Oggi è chiaro che è sorta la necessità di avere un confronto più franco e costruttivo. È opportuno per non dire necessario parlarsi anche per scambiarsi esperienze. È necessario un livello di integrazione fra le due realtà operative, con conseguente vantaggio su tutti i fronti: più efficacia, più rispondenza al proprio mandato, ottimizzazione delle risorse pubbliche e così via».

In parole povere, sia la CVD che il Coni dovrebbero essere più squadra.
«Esatto».

Alla luce di questo studio, di questo «Report», cosa si può dire?
«Che purtroppo, nel momento in cui si è dato origine nel 2007 a quell’accordo tra Ministero e Coni, il problema doping, in alcuni contesti, quali ad esempio le categorie giovanili, si è addirittura acuito. E quel che più preoccupa è che occorre fare molto di più e meglio nel settore  giovanile, dove per altro alberga quella che è la fonte del problema in discussione. Se una volta potevamo mettere in conto che un atleta faceva tutto il suo percorso trasparente e una volta arrivato alla cruda realtà del professionismo poteva maturare l’idea di entrare a far parte di certe logiche, oggi il problema sorge molto prima, in giovane età».

Nel rapporto della CVD sono stati considerati anche quegli sportivi che hanno fatto uso di prodotti salutistici e non dopanti. Questo perché: anche gli integratori o le vitamine fanno male?
«È un preciso lavoro della Commissione a fronte di tre livelli di valutazione. Il primo è dato dal problema degli integratori o di quei prodotti nei quali non c’è la certezza per il consumatore che siano privi di contaminazione. Il secondo è legato al fronte salute: l’eccessiva medicalizzazione che ancora persiste nella cultura di tanti sport. Nell’ambito ciclistico stiamo da anni lavorando in questa direzione e la stessa Uci, sulla scia delle iniziative della FCI in materia, ha varato il “No ago”. La eccessiva medicalizzazione dell’atleta rappresenta un problema culturale e nello stesso tempo un problema di salute pubblica. Ugualmente di ordine culturale è il terzo elemento; va assolutamente combattuta senza se e senza ma la perdurante convinzione che serve comunque un qualche cosa in più rispetto all’allenamento, ad una corretta nutrizione, alla corretta organizzazione delle fasi di lavoro e riposo, al costante positivo stato di salute psico-fisica, ecc».

Molti sportivi - non solo ciclisti - hanno l’autorizzazione terapeutica (AUT). Se stanno male, non è il caso che si curino senza gareggiare?
«È un argomento di assoluta attualità. Per la verità è da un po’ di anni che si continua a sottolineare che è un argomento di assoluta attualità ma tutto resta lì sui tavoli delle dichiarazioni. Personalmente sono sempre stato convinto che è meglio sulla base dei presupposti tecnico-scientifici, e non solo, una regola solida, al 99% e che però è condivisa da tutti, piuttosto di una regola di assoluta solidità tecnica-scientifica ma che non si correla in modalità efficace al difficile contesto pratico».

Vi sono molti, anche tra i suoi colleghi, che sostengono che sia il caso di introdurre l’«impraticabilità di campo» anche nel ciclismo. Insomma, istituire una commissione mista (organizzatori, giudici, tecnici e medici) per stabilire con chiarezza e competenza, se una tappa troppo calda o troppo fredda debba essere interrotta o annullata, per impraticabilità.
«Personalmente non credo che  tale soluzione possa essere di reale utilità per una più efficacia gestione di questi problemi di gara. Quello che a mio parere può rappresentare un sicuro passo in avanti nel garantire decisioni più “opportune” è prevedere più frequenti momenti di confronto, ma non certo nelle fasi di gara, tra varie competenze in materia di sicurezza e di tutela della integrità fisica degli atleti.    Tale processo può rappresentare un valido contributo nella formazione-aggiornamento di quelle figure deputate ad assumere le necessarie decisioni in gara. Diciamo che un giusto mix di competenze può opportunamente contribuire, in determinati contesti,  ad assumere delle decisioni con maggiore serenità. Sarebbe una cosa utile. A tutti».

Pier Augusto Stagi
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