Riteniamo sarebbe importante, anzi importantissimo, conoscere la storia dei giudici di gara – anche per gli stessi giudici di gara -, una storia in continua evoluzione e che ognuno, anche se in minima parte, contribuisce a scrivere con lo svolgimento del compito d’istituto – usiamo questo termine un po’ burocratico – con serietà, applicazione, competenza, equilibrio e coscienza che la delicata natura del ruolo richiedono. Il rincorrersi delle denominazioni che hanno accompagnato i giudici di gara nel tempo, e anche in quello piuttosto recente (ufficiale di gara, commissario e via dicendo) si è ora identificato in “giudice di gara”. Aldilà del fatto semantico e lessicale, la definizione ha la sua importanza poiché il termine “giudice” indica la possibilità e la facoltà di giudicare e, di conseguenza, intervenire e decidere subito, anche in gara, provvedimenti d’istantanea attuazione nei casi previsti dal regolamento. Non è stata usata la parola “passione” ma è implicito, scontato che la passione per la bicicletta è, per la quasi totalità, la molla scatenante e il primo incentivo per spingere a studiare e applicarsi, impegnando buona parte del proprio tempo libero, per svolgere la funzione di giudice di gara. Qualche eccezione in materia, giudici o presunti tali che identificano l’attività e il ruolo quale affermazione o “vetrina” di un supposto potere personale, non fa testo. E non è piccola la percentuale dei giudici di gara che, in gioventù, hanno gareggiato a livello agonistico nelle categorie minori, anche se, a dire il vero, non è che negli annali e negli albi d’oro delle corse d’ogni categoria figurino nomi di vincitori che si ritroveranno poi nella categoria dei giudici di gara. Aldilà di qualche eccezione, piccole eccezioni nonostante alcuni raccontino, con passione, dovizia di particolari, citazioni importanti ma sovente non controllabili, exploit straordinari nel racconto che non si sono concretizzati in vittorie per un nonnulla. “Amarcord” che, talvolta e soprattutto nell’esposizione, si trasformano in suggestive – e molto soggettive – performance del bel tempo andato. Un peccato veniale comunque. E molti giudici, in vettura o in moto, rivedono e rivivono con partecipazione particolare, anche se dissimulata dalla veste che il ruolo richiede, gli sforzi, le gioie, i dolori, i drammi – sportivi – che connotano e fanno la storia di ogni corsa, in ogni categoria. Nel passato, prossimo o remoto, da decidere a secondo dell’età, si diceva che un monumento del ciclismo quale Adriano Rodoni, il “presidentissimo” federale per antonomasia, soleva rivolgere ai giudici di gara l’esortazione “In una mano il regolamento, nell’altra il buon senso”. Un’esortazione di buon senso comune, sempre attuale, sempre valida, sempre augurabile nel ciclismo e non solo nel ciclismo, la cui applicazione in vari settori della vita comune risolverebbe molti problemi. Una data che rappresenta una pietra miliare per il movimento dei giudici di gara è quella del 29 giugno 1947 quando, a Bologna, al ristorante Tre Galli, nasce l’ A.N.U.G.C., l’acronimo che indica l’Associazione Nazionale Ufficiali di Gara del Ciclismo. E’ la risposta, la proposta operativa, voluta soprattutto da dirigenti lombardi, alla necessità di un preciso controllo, con personale preparato, al grande sviluppo dell’attività ciclistica, sia su strada, sia su pista, un vero e proprio “boom” che ha accompagnato il secondo dopoguerra. Il ciclismo era allora il primo sport, senza discussione, nell’interesse popolare e – per conseguenza – nell’interesse della stampa scritta e della radiofonia. D’altronde, con quei protagonisti, Bartali, Coppi, Magni citati in ordine anagrafico, e tutti gli altri campioni e personaggi dell’epoca, il ciclismo era entrato nel cuore, nell’interesse, nella cultura e nel costume degli italiani. In un’immagine dell’Assemblea Nazionale costituente dell’ANUGC si riconoscono tra gli altri, Giay, Rodoni, di Cugno e Magnani, ossia la nomenclatura dell’U.V.I., Unione Velocipedistica Italiana che divenne poi FCI – Federazione Ciclistica Italiana – nel 1964. La figura di Adriano Rodoni, presidente dell’UVI e poi della FCI dal 1940 al 1981 con un brevissimo intervallo a cavallo fra il 1955-1956 con la presidenza di Angelo Farina di Monza, già presidente del Comitato Regionale Lombardo, è sempre ricorrente. Oltre alle molteplici cariche nazionali e internazionali nei più importanti organi di vertice dello sport, Rodoni riveste quella del padre-padrone, del monarca assoluto che esercita il proprio potere con paciosa fermezza, competenza (all’età di quindici anni fondò il glorioso Sport Club Genova di Milano) e, quando lo riteneva necessario, ossia quasi sempre dicono molti suoi quasi coetanei, con mano di ferro in guanto di velluto. Questo breve profilo di Rodoni può contribuire alla comprensione di fatti successivi. (segue)
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