CIAO MARCO. Gatti: Quei complottisti «dopati»

APPROFONDIMENTI | 14/02/2014 | 08:13
Dieci anni fa, la sera di San Valentino, mentre gli innamorati si scambiano sogni e tenerezze sotto un cielo di stelle. Proprio in quelle ore, impazzendo nella desolata solitudine di un residence riminese, Marco Pantani si fa per l’ultima volta di cocaina e taglia il traguardo finale, stavolta senza nemmeno la forza di alzare le braccia. Nella sua stanza, triste e squallida come solo le camere di riviera nella stagione morta sanno essere, i segni di un naufragio totale e sconvolgente. I peggiori sono quelli che avvengono sulla terra ferma, ha scritto Goethe. Quello di Pantani è tremendo: ancora oggi nessuno è riuscito a stemperarlo nella malinconia e nella compassione. Da dieci anni, è occasione soltanto di pessimi sentimenti.

Certo ci sono i tifosi che ancora oggi vanno al Giro con lo striscione Forza Pirata. Certo ci sono le squadrette dei ragazzini che portano il suo nome. Certo ci sono i monumenti che lo ricordano nelle piazze di tanti borghi. E questa in fondo è l’eredità edificante, che poggia sul ricordo appassionato di imprese inimitabili, come quando nel ’98 staccò il divo Ullirch sul Galibier, in un punto folle e impensabile, per andare da solo al traguardo con nove minuti di vantaggio, vincendo quel Tour che in Italia mancava da oltre trent’anni. Si sarebbe cominciato a dire poco dopo, neppure un anno dopo, che quelle imprese erano possibili grazie al doping, ma si sarebbe scoperto in seguito come pure i battuti, Ullrich per primo, fosse aiutatissimo dalla chimica, sbaraccando definitivamente la teoria di trionfi sempre falsi e inattendibili. Avremmo cioè compreso tutti, negli anni a seguire, come il paradosso del doping – collettivo, trasversale, universale – avesse finito per cannibalizzarsi da solo, ripristinando a un piano più alto, un piano drogato, le normalissime gerarchie stabilite dalla natura.

Tutto questo, davanti alla tomba di Pantani, ormai conta poco. Quando cadde nella polvere di Campiglio, rotolando dall’Olimpo inarrivabile dove si era insediato a suon di scatti memorabili, il campione di Cesenatico iniziò a morire. Quello stesso orgoglio abnorme che l’aveva portato a superarsi sulle salite di tutto il mondo, per approdare alla fama perenne, non gli permise più di accettare la sconfitta, l’umiliazione, la vergogna. Anziché trasformare queste sofferenze in nuova forza, anziché uscirne da uomo migliore, Pantani si lasciò lentamente cadere nell’abisso. Non potento più essere il primo, il mito, il semidio, non accettò di essere uno dei tanti, guardati di striscio, oggetto come tutti di scetticismi e diffidenze. Era abituato ad essere raccontato al superlativo, tutta una vita al superlativo, non riuscì ad accettare d’essere rivisto al diminutivo. E così la droga, e così la depressione, e così la perdizione totale.

Di questa storia, l’unica storia vera e accertata di Pantani, poco resta nella storia ufficiale. Come al solito, della succulenta materia si è impossessata la premiata categoria degli orecchianti e dei vanitosi. Un sacco di bella gente dalla penna facile si è buttata a pesce sul grandioso fumettone, giocando alla grande su questi ingredienti appetitosi, tra gloria e perdizione, tra droga e sesso, tra fortune e miserie. Il che, per dirla senza tanti eufemismi, è come infierire a posteriori sui poveri resti di una vittima inerte. Di Marco Pantani, del ragazzo di mare che riuscì a domare le più feroci montagne, è rimasto solo il mito positivo per anime candide. Il resto è ombra, sospetto, tragedia, speculazione. In questi dieci anni, la storia di Pantani è diventata come la storia del primo uomo sulla Luna e come la storia delle Torri Gemelle: la verità più apparente e più logica non interessa a nessuno, viene scartata a priori come ridicola menzogna per babbei. Quelli che la sanno lunga, più o meno gli stessi che mentre Marco andava alla deriva in una clinica veneta lo davano all’estero ad allenarsi, pronto ad un memorabile ritorno, più o meno gli stessi attingono a piene mani, senza ritegno e senza pudore, dal campionario universale dell’altra verità: come gli americani non sono mai stati sulla Luna, come solo Bush può avere mandato aerei contro le Torri Gemelle, così Pantani è caduto sotto i colpi di spietati nemici, pronti prima a rovinarlo e poi ad ammazzarlo.

Più di un libro all’anno, fiction e teatro, dibattiti non so quanti, memorie e rivelazioni, monografie e inediti: abbiamo visto e sentito di tutto. I pavoni del retroscena, questi narcisisti della notorietà che non esitano a camminare sui cadaveri per farsi un nome, non si sono fermati davanti a niente. Non hanno esitato a spacciare per prove provate le più fantasiose ipotesi. Ma quasi mai hanno contattato e ascoltato chi conosceva davvero, fino ai più dolorosi dettagli, l’entità del dramma umano. E’ chiaro il perché: i compagni di viaggio più vicini e più sinceri di Pantani possono dire soltanto la cruda verità, finendo per mortificare sul nascere le fantasie e i teoremi, svuotando la miniera delle sue venature più appetitose, giallo thriller intrigo.
Riposi in pace, grande campione maledetto. Riposi in pace, fragile ragazzo romantico. Ovunque si trovi, merita una memoria migliore. Merita pietà e compassione. Rispetto e silenzio. Merita d’essere ricordato come un giovane Icaro che ha avvicinato troppo il sole, affascinato dal suo calore e dalla sua luce, perdendo di vista il senso del limite e del reale. Così se n’è andato Pantani, nella notte degli innamorati: schiacciato dalla gloria, dai suoi abbagli e dai suoi miraggi, dalle sue illusioni e dalle sue regole spietate, che rendono la caduta tanto più fatale quanto più alte sono le sommità raggiunte.

da «Il Giornale» del 13 febbraio 2014 a firma Cristiano Gatti
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