CIAO MARCO. Gimondi. «Ancora oggi mi emoziona»

APPROFONDIMENTI | 14/02/2014 | 08:10
Felice Gimondi è stato l’ultimo corridore italiano a vincere il Tour de France - nel 1965 - prima di Pantani. E fu proprio lui ad alzare il braccio al Pirata sul podio di Parigi quando Marco conquistò la Grande Boucle 1998, appena un paio di mesi dopo il trionfo al Giro d’Italia.


Gimondi, chi era Marco Pantani?
«Un campione cha seppe riaccendere la passione per il ciclismo e infiammare i cuori della gente».


Com’era il Pirata giù dalla bici?
«Aveva un carattere chiuso, era riservato e un po’ timido. Non amava la confusione e spesso la sera delle corse cenava da solo in camera, per cercare meglio la concentrazione». 


E in corsa?

«Quello che aveva in testa lo faceva. Certo, non era facile da gestire, ma era straordinariamente generoso. Un istintivo, un passionale».


Che non amava i giornalisti...

«No, tanto che spesso con loro parlava in terza persona, come per mantenere un certo distacco con i media. Ma anche per me, che allora ero presidente della sua squadra, era difficile avere un filo diretto con lui».

Ha qualche rammarico per quella tragica fine?

«Non so che cosa avrei potuto fare di più. Negli ultimi mesi sapevamo che era in difficoltà ma nessuno era più in grado di contattarlo. Non pensavo che potesse fare quella fine. Era San Valentino ed ero fuori a cena con mia moglie. Ci rimasi malissimo e non parlai più per tutta la serata».


Perché è finita in quel modo?

«Difficile dirlo. Forse amicizie sbagliate, un certo distacco dai genitori, magari anche le tentazioni di un luogo come Cesenatico. Ma morire così, con tutta la vita davanti, è assurdo».


Che cosa aveva in più Pantani rispetto agli altri corridori?

«Quando lo aspettavi, lui c’era. Il nostro non è un mestiere di parole, quelle servono ai politici. Nel ciclismo contano i fatti, a prezzo di fatica e sacrifici. Marco sapeva fare l’impresa, entusiasmare le folle, parlare alla bici e alle montagne. Per questo era diventato un idolo. E ricordo che quando passeggiava ci volevano due o tre guardie del corpo per tenere a bada i tifosi».


Che cosa aveva invece di meno?

«Forse pativa una certa fragilità psicologica, era insicuro, non si rendeva conto della grandezza che aveva dentro, così finiva per isolarsi. Dopo l’esclusione dal Giro d’Italia 1999 gli sarebbe bastato presentarsi il mese dopo al Tour, perché non era squalificato. Invece lui visse quel fatto come un affronto personale e saltò in aria di testa».


Perché Pantani è ancora così amato?

«Perché il suo modo di correre faceva venire la pelle d’oca. Per noi corridori è impossibile dimenticare quello che Marco ha saputo fare in bici e non emozionarsi ancora oggi. Vi ricordate il Tour de France 1998, quando partì sulla salita del Galibier a oltre 50 km dal traguardo, con pioggia e freddo come in autunno? Sembrava una follia, invece diede nove minuti a Ullrich e quel giorno vinse il Tour». 


Che cosa ci ha insegnato?

«Che per un uomo la passione è fondamentale, non solo nello sport. Con quella riuscì a superare gravi infortuni e fare la doppietta Giro-Tour che dopo di lui non è più riuscita a nessuno». 


C’è un corridore che oggi lo ricorda?

«No, Marco era inimitabile. Forse solo Nibali a volte gli assomiglia. E fra quelli dei miei tempi potrei dire lo spagnolo Fuente. Ma sono entrambi lontani».


Lo spagnolo Jimenez, il belga Vandenbroucke e Pantani: tre grandi corridori che hanno fatto la stessa tragica fine. C’è un legame fra loro?

«Forse l’esasperata ricerca del risultato a tutti i costi e l’incapacità poi di saperlo gestire».


Pantani in molti alimenta anche il sospetto di doping...

«Un asino non potrà mai diventare un cavallo da corsa, nemmeno con la chimica. Marco era superiore a tutti gli altri corridori, uno dei più grandi scalatori di tutti i tempi».


Come lo vuole ricordare, a dieci anni dalla sua scomparsa?

«Nel Giro d’Italia 1999, quello nel quale fu escluso a poche tappe dalla fine per ematocrito alto, quando aveva ormai vinto. Nella tappa con arrivo a Oropa gli era saltata la catena della bici attaccando la salita finale, eppure seppe rimontare 49 corridori, superandoli uno dopo l’altro, prima di trionfare. Non sapeva nemmeno se li aveva raggiunti tutti e per questo non esultò sul traguardo perché non era sicuro di aver vinto. Un’impresa che non ho mai più rivisto da nessun corridore dopo di lui».

da «La Stampa» dell'11 febbraio 2014 a firma Giorgio Viberti
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