| 10/05/2012 | 09:02 Bentornati in Italia: nemmeno il tempo di metterci piede e il Giro
d'Italia viene subito depredato. Nel parcheggio dentro il Vecchio
Arsenale di Verona, sede del quartiertappa, alcune macchine di
fotografi vengono alleggerite di tutto il materiale elettronico,
sotto gli occhi del servizio di sicurezza e delle telecamere. Bottino
cospicuo. Con un' aggravante: tra i depredati, professionisti
americani appena aggregati alla carovana.
Immaginabile il loro resoconto sulla stampa statunitense, diciamo un
grande spot per la giunta del rieletto sindaco Tosi, garante leghista
della sicurezza in città. Sul Diario del Giro va annotato di tutto.
Specchio fedele del suo Paese, questa manifestazione offre il rosa
soltanto come uno dei colori in gioco, accanto però a tutta la
tavolozza della vita, nero compreso. Quanto alla gara, quella riparte
da Verona lanciando subito un grande concorso: «Pronuncia il nome
della maglia rosa e vinci ricchi premi ». Io ci riesco perché lo copio
una lettera per volta dall'ordine dalla nuova classifica ufficiale:
Ramunas Navardauskas. È lituano, ha 24 anni, è uno specialista della
crono: difatti, dopo aver pedalato egregiamente nel prologo danese,
eccolo piombare in testa alla classificagrazie alla perfetta prova
collettiva con il suo team Garmin. A lasciarci la zampa,
purtroppo, il simpatico gigante yankee Taylor Phinney, il bimbone
21enne cresciuto in Veneto e attualmente accasato in Toscana. Dico
purtroppo perché questo ragazzone ancora nell'età dello sviluppo,
benché già arrivato a 1,97, stava cominciando ad essere piuttosto
amato. Certo per le sue doti ciclistiche, ma soprattutto per il suo
stile di vita, basato su una precoce saggezza e su un ammirevole
ottimismo, tutto quanto illuminato dal perenne raggio d'ironia. Da
quando s'è messo la maglia rosa nel prologo di sabato, ne ha viste di
tutti i colori. Domenica subito caduta. Lunedì altra caduta con
profonda ferita al piede e caviglia gonfia come un cocomero. In
serata, al rientro sul suolo italiano, odissea molto tricolore per
pronti soccorsi veneti: a Verona lo mettono in fila con tempi d'attesa
di ore, senza possibilità di istituire sul posto un comprensibile
'codice rosa' (qui, in Italia, nella culla dei privilegi e delle
raccomandazioni: il mondo sta proprio girando alla rovescia). Alla fine
si decide di spedirlo a Soave, dove i tempi sono più umani e dove gli
ricuciono lo sbrego giusto in tempo per la nottata.
Gran finale, la cronosquadre. Per chiudere in bellezza, il vecchio
Taylor finisce fuori da una curva, in discesa, riuscendo con notevole
prova di equilibrio a ritornare in strada, mimetizzato di radici ed
erbacce come un assaltatore in operazione di guerra, ma purtroppo con
un ritardo pesante: tra caviglia gonfia e uscita di strada, il
disastro è compiuto. Addio maglia rosa. Eppure, il suo sogno infranto
non sfuma in piagnisteo: alla fine incassa con l'ennesimo sorriso,
per la serie è stato bello comunque. Mentre i big sostanzialmente
non si assestano botte memorabili ( benissimo Rodriguez, tutti lì
assiepati i vari Basso, Kreuziger, Schleck, Scarponi e Cunego),
becchiamoci questa nuova maglia rosa lituana con cognome da concorso
a premi. Raccontano in Giro che sarebbe il segno della vivacità,
dell'equilibrio, della novità, del cambio di generazione. E noi
dovremmo pure bercela. Dal mio punto di vista personalissimo, constato
che in quattro tappe abbiamo assistito a quattro vittorie straniere-
il che ci può stare, se siamo scarsi noi italiani - , ma soprattutto
a una classifica generale che tiene lontanissimi e introvabili i veri
protagonisti del Giro (altro concorso: 'Trova il primo big in
classifica e vinci un viaggio con Giggetto Sgarbozza'). Sono tutti
punti di vista rispettabili, dunque anche il mio: a me questa visione
idilliaca del livellamento, della novità e del ricambio generazionale
non dice granché. Io continuo a rimpiangere i grandi Giri dominati dai
campioni veri, come quel Bugno che si metteva la maglia rosa nel
prologo di Bari e la spogliava soltanto a Milano, tre settimane dopo,
solo per farsi la doccia. O come quell'Indurain che la maglia rosa ce
l'aveva già addosso come la maglia della salute, prima ancora di
cominciare. Eppure dalla regia ci dicono che questo percorso è
studiato apposta, proprio per creare incertezza fino alla fine.
Complimenti. Un'ideona.
da «Il Giornale» del 10 maggio 2012 a firma Cristiano Gatti
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