| 25/04/2012 | 11:38 O rmai il ricorso alle vicende personali, e quindi all’io narrante, è sempre più spesso necessario o almeno utile a chi tiene una rubrica come questa, sovente ancorata al passato per instabilità del presente, in altre parole sempre più sistemata sul ciclismo “d’antan” che su quello attuale che se non altro ci sembra povero di motivi validi per una buona e, perché no?, ricca collezione di memorie. Così scomodo il mio primo Tour de France, anno 1960: ero in auto con un reporter mitico e nei riguardi del ciclismo persino mistico, Ruggero Radice in arte Raro, grande amico personale di Jacques Goddet e Félix Lévitan giornalisti padroni della corsa gialla, inviato speciale di due quotidiani italiani, francofono perfetto, non solo per via della sua nascita a Salon, in Provenza, ma anche e soprattutto per lunghe frequentazioni a Parigi e dintorni, oltre che per tanti Tour seguiti (e Raro nasceva dalla prima sillaba di Radice e di Roger, con il nome di battesimo francesizzato).
Lui mi fece capire che non era proprio il caso che io usassi la lingua di Molière, lingua che pure già allora parlavo piuttosto bene, perché c’era un francese tipico dei suiveurs (quelli al seguito della corsa, meglio se abbigliati con camicia a quadri, giubbotto, pantaloni di velluto e basco dei contadini pirenaici), un francese che non potevo conoscere, e poi certi approcci presumevano tutto un rosario speciale e mai obliato di “s’il vous plait”, “est-ce-que par hasard?”, “veuillez bien m’excuser”, sino a “monsieur le gendarme” rivolto al vigile/poliziotto, al flic. Eccetera eccetera. Il francese in effetti possedeva linguisticamente il ciclismo, si diceva surplace per l’iniziativa di chi in pista si bloccava sulla bici aspettando le mosse dell’avversario, grimpeur di chi scalava le vette, domestique del gregario. Il raduno di partenza era il “rendez-vous du depart”, la “musette” era il sacchetto del rifornimento, il “macaron” era la credenziale, cioè il cartoncino con la fotografia e i dati anagrafici del portatore.
Ma il francese possedeva quasi tutto lo sport, e non per nulla il Comitato Internazionale Olimpico, fondato dal francese De Coubertin, con sede a Losanna, Svizzera francofona, in caso di discordia o confusione fra le sue leggi tradotte in varie lingue, sceglieva come decisiva (tranchante) la versione in francese. E in francese erano i primi annunci pubblici in tutte le grandi manifestazioni sportive internazionali: inglese e lingua del posto venivano dopo.
Ho assistito in giro per il mondo all’occaso o comunque al declino del francese, all’insorgere ed espandersi della dominazione dell’inglese, alla crescita anche nello sport dello spagnolo. Sci, automobilismo, basket erano, in Europa almeno, sport molto o abbastanza francofoni. Finito: nello sci prevale il tedesco, nell’automobilismo l’inglese, e nel basket l’americano che è inglese pasticciato un po’. Tiene in francese la scherma, che però sa d’antico. E il calcio? Mai stato dominio del francese, ma i molieriani si difendevano contro l’inglese da sempre travolgente: adesso sono spariti quasi del tutto, per via di due altre lingue latine, l’italiano (libero, catenaccio, tifosi, panchina…) e lo spagnolo, che connotano eccome. Quell’italiano che è trasversale ormai di tanti sport, anche per il viavai di atleti stranieri nelle nostre squadre di calcio, basket, pallavolo, pallanuoto (e nella Formula per via dell’influenza della Ferrari, che ha fatto parlare in italiano anche Schumacher). Tutto anglofono, ma da sempre, è il rugby.
L’inglesizzazione del ciclismo comunque è il fatto linguistico più eclatante. Il libro ufficiale di spiegazione/presentazione del Giro d’Italia ospita tanto inglese. Time trial per corsa a cronometro, e poi finish, rush, sprint, start… Partendo da lontano, dai pedalatori inglesi e però anche francofoni Tom Simpson (buonanima) e Greg LeMond, si arriva a Mark Cavendish, passando per l’irlandese Stephen Roche e gli australiani (Cadel Evans e i suoi connazionali vincitori “sanremesi”). I corridori belgi fiamminghi parlano ormai l’inglese più del francese da essi mai amato, anche se è la loro lingua, delle due nazionali, più usata nei rapporti internazionali, e gli olandesi sono anglofoni già dalla scuoletta, come anche gli scandinavi.
Cresciuti nel ciclismo a pane, salame, Bartali e Coppi, noi vecchi magari soffriamo un pochino nel vedere il Tour che cede all’inglese, anche perché “les géants de la route”, “les damnés de la montagne”, “les héros du pavé”, “les diables de la vitesse” erano entrati nel nostro lessico famigliare. Un po’però godiamo nel sapere almeno leggermente umiliati gli amici francesi, i quali sempre hanno detto Jimondì anche quando noi rispettosamente dicevamo Anqtìl alla francese e non Anquètil all’italiana. E intanto noi diciamo Platinì anche se nel Novarese, dove sono le radici di Roi Michel, i tanti col suo cognome sono chiamati Platìni, con l’accento tonico tipico delle parole italiane.
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