DA TUTTOBICI. Marcato, Calimero è pronto a volare

| 27/03/2012 | 08:56
Ci sono ragazzi che passano professionisti e sono ad­ditati da tutti come “promesse”, come “i campioni del fu­turo”, ma che deludono perché tra i big non riescono a mantenere le aspettative sviluppate sul loro conto. Ce ne sono tanti altri che seppur abbiano un grande potenziale, devono invece conquistarsi tutto con il doppio, il triplo, il quadruplo della fatica: da un minimo di considerazione a un contratto, dal rispetto in gruppo alla popolarità me­diatica. Pensiamo alla coppia Cipollini-Petacchi. Due campioni vincenti, ma il primo una star del piccolo schermo con rubrica sul primo quotidiano sportivo nazionale, l’altro da sempre meno mediatico, messo sotto torchio perché meno “personaggio”.
Tra i giovani emergenti un “Calimero” dei nostri tempi è il padovano Marco Marcato che col sudore e il tempo ha saputo dimostrare quanto vale, senza di contro essere “marcato” a dovere da squadre e sponsor che contano, da giornali e tv. Ha dovuto lottare fin dall’inizio con tutte le sue forze per ottenere un ingaggio nella massima categoria, ha poi trovato la sua dimensione all’estero, a dimostrazione di quanto ancora una volta il nostro paese (anche in campo sportivo) troppo spesso lascia andare “in fuga” i suoi talenti migliori. Almeno noi di tuttoBICI vogliamo concedere a Marco, più noto fra Belgio (dove a Wer­vijk ha un fan club che riunisce più di 200 iscritti) e Olanda che in Italia, lo spazio che merita, sperando che in molti ci seguano a ruota.
Marco ti senti un po’ Calimero?
«Purtroppo sì. Quello che ho ottenuto non me l’ha regalato nessuno né a livello di risultati né a livello mediatico. Ho faticato e meritato quanto è arrivato e sta arrivando a suon di piazzamenti, attacchi e finalmente successi. Mi fa piacere che ultimamente anche la stampa abbia iniziato ad ac­corgersi di me, ma non so­no proprio uno “nato con la camicia”. Ci sono corridori che non si sa bene come facciano sempre a far parlare di loro, mentre ragazzi come me che fanno la vita da professionista e sono sempre lì a lottare per il risultato ottengono meno riscontri. Io comunque sono sereno perché sono un tipo tranquillo che non cerca la popolarità a tutti i costi. Mi ba­sta fare del mio meglio sulla strada e farmi notare per come vado in bici».
Raccontaci qualcosa in più di te...
«Sono nato a San Donà di Piave, in pro­vincia di Venezia, ma abito da sempre a Campodarsego, vicino a Padova, prima con i miei genitori, che gestiscono una trattoria, e da qualche tempo con Elisa, la ragazza con la quale sono fidanzato da dieci anni. Sono un ragazzo allegro, semplice, senza grilli per la testa, che ha la fortuna di fare per professione quello che più ama e che in una strada spesso accidentata come quella del ciclismo ha incontrato delle ottime persone che lo hanno sempre consigliato al meglio. Un atleta completo, adatto alle classiche, alle gare di un giorno. Un combattente (ne è prova il dorsale rosso di corridore più combattivo del gruppo conquistato nella tappa di Carmaux al Tour dell’anno scorso, ndr) che non molla mai, ma che capisce quando è il momento di lavorare per i compagni. Un corridore da percorsi mossi, vallonati, insomma più da Belgio che da Italia. Diplomato in ragioneria, mi sono iscritto a “Economia territoriale” all’università di Padova, ma dopo un anno ho lasciato perdere per dedicarmi totalmente al ciclismo. Non ho nessun hobby in particolare, ma amo la montagna: quando non sono in bici so­no spesso sugli sci».
Ripercorriamo i tuoi inizi in bicicletta.
«Nessuno nella mia famiglia praticava ciclismo, mi sono innamorato di questo sport guardando le corse in televisione. Ho iniziato per gioco verso i 6 anni. Ai tempi le domeniche mie e di mio padre erano molto intense: mattina gara, po­meriggio saggio di pattinaggio artistico a rotelle. Così fino ai dieci anni, poi ho scelto la bici. Mi sembra ieri la prima gara disputata da G1: vestivo la maglia del GS Fiumicello, avevo una biciclettina con i pedali con le cinghiette, 3 km da percorrere… Un altro mondo. Oggi ovviamente il ciclismo è diventato la passione di famiglia e ho così tante persone che mi seguono che è impossibile nominarle tutte. Dai familiari più stretti: mamma Amelia, papà Adriano e mia sorella minore Chiara (che ha praticato ciclismo fino alla categoria juniores, ndr) alla mia fidanzata Elisa; passando per i preziosi maestri che ho incontrato lungo la mia strada, gli amici italiani e i supporter belgi».
Tra i dilettanti vesti la maglia della Ba­ta e sei tra i primi corridori in assoluto ad aver sperimentato il passaporto biologico.
«Sì, dal 2003 mi sottopongo alla “Tes­se­ra a Tutela della Salute” messa a punto dall’Università di Padova e dal professor Plebani, il primo prototipo di passaporto biologico al mondo a cui il team di Rino Baron si è sottoposto fin dall’inizio. Ancora oggi continuo a sottopormi ai controlli del centro universitario di Padova, oltre a quelli previsti dal pas­saporto biologico obbligatorio WA­DA, perché credo in questo progetto che mi onora e mi tutela. Non ho interesse a farmi pubblicità in questo senso, ma sono orgoglioso di contribuire a un’iniziativa di assoluto livello nella lotta al doping. Paragonato ad altri sport, il ciclismo in questa direzione ha fatto passi da gigante rispetto al passato. Purtroppo c’è sempre chi prova a fare il furbo, ma ormai per quanto sia­mo controllati non c’è più scampo. Che il ciclismo sia più pulito che in passato è innegabile, basta vedere come le corse siano diventate inprevedibili. Spero che si continui su questa strada: per lo sport, per i giovani e per lo spettacolo».
Nel 2005 arriva il passaggio al professionismo.
«Fin da piccolo sono “Calimero”, ma sono anche fortunato. A differenza di altri ragazzi che da dilettanti vincono tanto e non riescono a fare il grande salto o sono costretti a scendere a compromessi, io dimostrando di tenere in tutti i terreni e vincendo al momento giusto mi sono conquistato una chanche per provare a pedalare tra i grandi. Vincere la Bolghera-Trento sotto gli occhi di Davide Boifava ha rappresentato la mia opportunità. Così dopo due soli anni tra gli Under, a 21 anni sono passato professionista, grazie alla fiducia di un grande team manager, uno di quelli di cui ci si può fidare, che non promette più di quello che può dare... Il che non è da poco nel nostro mondo. Seguono tre anni “italiani”, gli unici della mia carriera, nella Androni durante i quali imparo molto».
Alla fine del 2007 il “trasferimento” in Belgio.
«All’epoca scelta obbligata, oggi direi scelta fortunata. Boifava mi disse che l’unione fra la squadra per cui militavo e i belgi dell’Unibet, data per scontata prima della vacanze, era saltata. Avevo due possibilità, anzi tre: restare in attesa di novità sul fronte italiano (era nell’aria un ingaggio per la LPR di Bordonali, ndr) oppure andare in una piccola squa­dra belga. La terza? Decidere di fare altro nella vita… Ho optato per il Belgio su suggerimento di Boifava, il quale mi disse che le strade, le corse, le esperienze che mi si sarebbero aperte all’estero sarebbero state la soluzione migliore per me. Sapevo non sarebbe stato facile, ma avere come compagno di avventura Bozic mi è stato d’aiuto per trovare il coraggio di “buttarmi” in questa nuova avventura. Dentifricio, due ricambi, un vocabolario d’inglese e via. Da quell’autunno ho cominciato un’altra carriera, anzi proprio un’altra vita. Ho imparato a viaggiare, a stare tanto lontano da casa, a parlare in inglese. Ma soprattutto ho imparato a correre in Belgio, dove il ciclismo è religione».
La pista belga ti fa ap­prodare alla Col­lstrop, che l’anno se­guente diventa l’o­lan­­dese Vacan­soleil.
«Esattamente. La squadra, all’inizio molto piccola, mi fa subito partecipare alle corse monumento ed io, che sei mesi prima non sapevo cosa sarebbe stato di me, ad aprile ho corso Giro delle Fiandre e Parigi-Rou­baix. Dopo il primo anno lassù, che per me è stato come l’anno zero, la squadra ha cambiato sponsor, manager e nazionalità, ma la mia idea è rimasta la stessa: provare a sfondare. La professionalità, l’umiltà e il lavoro per i compagni mi vengono riconosciuti e piano piano cresco, con me cresce anche la squadra. Nel 2011 entriamo a far parte del World Tour, una grandissima soddisfazione per chi come me ha vissuto questo progetto dagli inizi. Oggi guardando indietro rifarei tutto, senza cambiare una virgola».
Tra alti e bassi si susseguono le stagioni, sei sempre “lì davanti” ma fatichi a raccogliere.
«Se si contano solo le vittorie, nei primi tre anni ne ho collezionate una a stagione, nei tre successivi è mancato l’acuto, ma ho fatto incetta di numerosi piazzamenti, anche in corse prestigiose. Nel 2011 mi sono sbloccato, dopo la vittoria al Tour de Vandée è scattato qualcosa dentro di me a livello mentale più che fisico. La forma c’è sempre stata, ma oltre alla fortuna mi mancava la convinzione di poter tagliare il traguardo per primo. Ora credo di più nei miei mezzi».
Arriviamo al 2012. Se il buongiorno si vede dal mattino....
«Non posso lamentarmi. Il successo all’Étoile de Bessèges, rispetto ai tanti piazzamenti raccolti nella stessa gara l’anno scorso è un buon segno. Le vittorie fan­no sempre bene. Il mio rendimento cresce anno dopo anno, spero che questo sia l’anno buono per iniziare a centrare risultati im­por­tanti».
Dove ti vedremo in azione?
«La Tirreno-Adriatico e la Milano-San­re­mo costituiranno i miei primi obiettivi di stagione. Poi, se c’è la condizione mi aspettano tutte le classiche, eccetto la Freccia Vallone. Dopo questo periodo in cui spero di andare forte, preparerò al meglio il Tour de France. Per i programmi della squadra è riman­dato al­meno di un anno l’ap­pun­tamento con il Giro. Alla fine di quest’anno il mio bi­lancio sarebbe più che positivo se riuscissi a vincere una grande corsa e po­tessi partecipare al Mondiale».
Nei prossimi mesi potrai giocare le tue carte nelle due corse che hai nel cuore: San­remo e Amstel Gold Race.
«Ho due belle occasioni che sfrutterò al meglio. Alla San­remo spero di mettermi in mo­stra come l’anno scorso senza cadere però a 4 chilometri dalla fine (sorride, ndr). Cer­cherò di essere davanti sul Poggio e di fare la corsa. Il so­gno dei sogni, se proprio vogliamo dirla tutta, è un altro ancora: diventare campione del mondo. Per il 2012 mi basterebbe vestire l’azzurro a Valkenburg. In occasione della presentazione della squadra ho avuto modo di provare il percorso del Campionato del Mondo olandese: mi si addice molto. Speriamo di essere convocato».
Il mese scorso hai compiuto 28 anni. Non puoi più essere considerato un “pulcino”.
«Giusto (sorride, ndr). Dall’an­no scorso è arrivata l’ora di di­mostrare di potermi meritare un posto tra i migliori nelle corse che contano. In questa stagione e nelle prossime spero di riconfermare quanto di buono ho fatto vedere sinora e man mano di ottenere sempre qualcosina in più. Ormai mi sento maturo e ho ancora 4-5 anni per correre ad alti livelli. A differenza delle “promesse” tanto osannate non sono esploso a 23 anni, ma ora sono pronto a far vedere chi sono».

da tuttoBICI di marzo, a firma di Giulia De Maio
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