DA TUTTOBICI. VIVIANI, NEW GENERATION

| 27/11/2011 | 09:30
Never settle, mai abbastanza. È questo il motto della Li­qui­gas Cannondale 2011 ed Elia Viviani, una delle stelle più luminose della formazione verdeblu, sembra proprio averlo fatto suo.
Professionista da aprile 2010, in due stagioni scarse ha collezionato undici suc­cessi su strada e innumerevoli su pista, tra cui i due titoli europei Om­nium e Corsa a Punti conquistati ad Anadia, in Por­togallo. Dopo aver vestito l’azzurro ai recenti Mondiali di Co­penhagen, il ventiduenne veneto ha chiuso l’annata su strada imponendosi nella quarta tappa del Giro di Pechino senza perdere di vista l’obiet­tivo che sta più a cuore a lui e all’intero movimento ciclistico italiano: l’Olim­pia­de di Londra.
Conosciamo meglio questo ragazzo tranquillo e generoso, sveglio e alla mano, con testa e doti fisiche che pochi possono vantare, ma soprattutto uno spirito vincente, che gli impedisce di dire “per me così é abbastanza”.
Ragazzo “affamato”, lascio a te le presentazioni...
«Sono la tranquillità in persona, un tipo abbastanza timido, che nella vita di tutti i giorni come in bici quando si pone degli obiettivi da raggiungere fa di tutto per non deludere. Testardo, meticoloso, ordinato, perfino un po’ pignolo, sia che si tratti di preparare la valigia, di riassettare la camera o di pulire la bici. Abito a Vallesse di Op­pea­no, in provincia di Verona, con la famiglia migliore che si possa desiderare: mamma Elena e papà Renato, che portano avanti un negozio di mobili, e due fratelli più piccoli, sportivi anche loro. Luca, classe ’91, gioca a calcio, da quest’anno nel Lecco in serie C2, e At­tilio, che in­ve­ce sta seguendo le mie orme ed ha corso tra gli allievi del 1° anno nel GS Luc Bovolone (squa­dra in cui Elia è cresciuto, ndr) e quest’anno ha vinto ben due titoli italiani in pi­sta. Attualmente sono single: dopo la do­lorosa fine di una relazione importante durata cinque anni e mezzo mi sto dedicando anima e corpo al ciclismo».
E come atleta invece come ti definiresti? Nel video di presentazione della Liquigas di quest’anno dici: «Quando la strada co­mincia a salire o sei Ivan Basso, che ti pia­ce, oppure è un problema. Quando in discesa arriva la curva più pericolosa o sei Nibali o freni. Finalmente quando arriva la volata posso dire la mia».
«È così. Non mi definirei semplicemente un velocista, ma un passista ve­loce. Potremmo dire che sono uno scat­tista perché quando c’è l’occasione mi piace attaccare, fare la corsa. Ho un buon rapporto con le cronometro, mi trovo a mio agio soprattutto in quelle a squadre e in quelle brevi. Nel mio futuro oltre alla caccia di tappe nei giri, vedo le classiche. Mi auguro di diventare un buon corridore da corse di un giorno».
Com’è nata la tua passione per il ciclismo?
«A otto anni, grazie al mio compagno di classe Enrico Sasso: mi incuriosì il fatto che fosse l’unico tra i miei amici a pedalare. Da ragazzino ho praticato diversi sport, quando ho scoperto le due ruote giocavo da due anni a calcio, in porta. Ero bravo, tanto da essere chia­mato da più di una squadra importante per dei provini, ma il ciclismo mi ha conquistato. Così quando sono passato esordiente ho accantonato le altre discipline e ho iniziato a pensare solo al ciclismo».
Ti ricordi la tua prima bici?
«Certo. Una Bianchi “color Bianchi”, con i classici puntapiedi e i manettini del cambio sul telaio. Da G3 ad allievo non ho mai usato bici di altre marche, ma anno dopo anno ho raggiunto delle piccole conquiste tecniche, rispettando alla lettera l’allora regolamento del GS Luc Bovolone: dai puntalini sono passato ai Look, dai manettini sul telaio a quelli sul manubrio».
E la prima gara?
«Come potrei dimenticarla? Le sconfitte rimangono in testa più delle vittorie. A Salizzole, ero G3, persi in volata. Finii secondo dietro a un ragazzino che si chia­ma Elia come me, Zuliani, che poi da esordiente a junior sarebbe sta­to mio compagno di squadra. Mi ha fre­gato solo quella volta (sorride, ndr)».
Allora, cosa sognavi di fare “da grande”?
«Il ciclista, amo davvero la mia professione. Per fare qualche esempio, anche se corro nella massima categoria ci ten­go a lavarmi personalmente la bici e quan­do ho un attimo libero corro al­l’of­­ficina dei miei meccanici storici Fran­co e Matteo. Anche quando sono alle gare mi piace guardare i meccanici all’opera per imparare qualcosa o semplicemente fare due chiacchiere con loro».
Il piccolo Elia sarebbe felice di quello che è diventato?
«Senz’altro, non poteva sperare di me­glio. Visto che già da bambino ero esigente, potrebbe solo lamentarsi perché non è ancora arrivato quel titolo mondiale che aspetta da 5 o 6 anni (sorride ancora, ndr). A parte questo, sono cresciuto in maniera costante, attorniato da belle persone, che non mi hanno fatto bruciare le tappe. Nelle categorie minori mi sono stati insegnati i veri va­lori del­lo sport, da junior ho con­ti­nuato a pe­da­lare in una piccola realtà per passione, sempre dopo la scuola. Mi sono diplomato perito meccanico all’Itis G. Ferraris, la stessa scuola di Guardini, Alberio, Scartezzini, insomma l’istituto frequentato da tutti i ciclisti veronesi; il direttore ormai è abituato a ragazzi che spariscono per diversi giorni per le gare. I primi anni faceva qualche storia, ma ormai si è rassegnato (scherza, ndr)».
Quale ritieni sia il momento più importante nella tua giovane carriera?
«Le indimenticabili EYOF (European Youth Olympic Festival) di Lignano, a cui ho preso parte da allievo. In quella occasione ho conosciuto Paolo Slongo, a cui mi sono affidato e con il quale da lì in poi mi sono sempre trovato benissimo, tanto che mi segue ancora adesso. All’epoca era tecnico della nazionale donne, ma era stato “prestato” per quell’occasione al settore giovanile. Un bel caso. Mi ha seguito alla Marchiol quando ero Under 23 e ci siamo ritrovati alla Liquigas, dove lui ha il ruolo di preparatore unico. Sono fortunato ad averlo al mio fianco perché, atleticamente parlando, nessuno mi conosce bene come lui».
In questo momento cosa rappresenta il ciclismo nella tua vita?
«Tutto. Se prima c’era come “alternativa” la ragazza, ora il mio tempo è completamente impegnato dal lavoro. Ov­viamente nelle mie giornate oltre alla bici ci sono la mia famiglia e gli amici di sempre, che però purtroppo vedo poco perché sono sempre più spesso in giro per il mondo, ma posso dire tranquillamente che non ho mai fatto la vita da corridore come in queste ultime stagioni in ottica Olimpiade».
E la volata?
«Caos, adrenalina, concentrazione. Ne­gli ultimi chilometri sono talmente at­tento a ogni minimo spostamento, a calcolare cosa succederà da lì a qualche istante, che non sento neanche le urla del pubblico. Fino alla linea del traguardo guardo solo la mia ruota e quelle dei miei avversari».
Passata la linea invece a cosa guardi?
«Se la taglio per primo ripenso a tutto quello che ho fatto per arrivare fin lì, a tutti i sacrifici, a tutte le rinunce, e pro­vo gioia. Se invece vengo battuto, di­pende. In genere sono realista, se ho sbagliato qualcosa mi mangio le mani per aver buttato via un’occasione e chie­do scusa ai miei compagni di squadra, se invece ho fatto tutto quello che potevo per vincere faccio semplicemente i miei complimenti a chi è sta­to più forte».
Come ti spieghi questa “fame”, questa vo­glia, questo bisogno irrefrenabile tipico dei velocisti di alzare le braccia al cielo il più spesso possibile?
«Credo sia una caratteristica del corridore vincente, non solo del velocista. Una questione personale, non di pressione esterna. Uno sfo­go, un urlo, un gesto se si tratta del mio amico Oss. Personalmente se non vinco per un po’ sento la necessità di una conferma per me stesso, prima che di una dimostrazione per gli altri. Visti i tanti sacrifici che questo sport comporta per me è fondamentale avere prova, che per lo meno in quella corsa, quel dato giorno, in quel preciso momento, sono il più forte».
Qual è finora la gioia più grande che hai provato in sella?
«Fortunatamente ne ho provate tante. Non mi sono goduto come avrei voluto la mia prima vittoria da professionista al Giro di Turchia per l’incompren­sio­ne con Giovanni Visconti. Finita la cor­sa, la mia prima preoccupazione più che festeggiare era chiarire con lui. So­no fatto così, tengo tanto ad avere un buon rapporto con tutti e mi dispiaceva che si fosse arrabbiato con me, anche perché lo ammiro molto per il suo mo­do di correre. La prima vera oc­casione per esultare c’è stata al Memo­rial Pan­ta­ni, ma finora la vittoria più bella è stata quella al Memorial Frank Van­den­broucke dello scorso anno. La corsa rispecchia le mie caratteristiche e al nord c’è davvero qualcosa di speciale, che mi esalta».
Qual è invece il rammarico più grande che hai legato alla bici?
«Tutte le volte che ho sfiorato la maglia iridata è stata una delusione, il mondiale di quest’anno in pista rappresenta lo scotto più recente (a marzo sul velo­dro­mo olandese di Apeldoorn Elia ha conquistato l’argento nella prova scratch, ndr). Anche se sai di aver fatto tut­to il possibile per essere il migliore, po­sare davanti ai fotografi sul podio di fian­co a chi veste la maglia che sogni da sempre lascia tanto amaro in boc­ca».
Chi ti senti di dover ringraziare per dove sei arrivato?
«In primis i miei genitori: con tre figli tutti sportivi agonisti hanno fatto e fan­no tutt’ora i salti mortali per seguirci. A tutti gli appuntamenti importanti, do­vunque siano nel mondo, loro non mancano mai. A seguire i miei tre “pa­dri” ciclistici, ossia i tre diesse che mi hanno seguito negli anni, che sento al­meno una volta a settimana: Lino Sca­pini (da giovanissimo ad allievo nella GS Luc Bovolone), Remo Cor­dioli (da juniores nella FDB Sti Eco­dem) e ov­viamente Slongo. Attual­men­te devo dire grazie a tutta la Liquigas, dal presidente che ha deciso di rinnovare il mio contratto anche se il mio valore è cresciuto molto rispetto a quello iniziale, a tutti coloro che lavorano perché credono che io possa diventare un campione. Last, but not least un pensiero lo devo a tutto il mio paese e al mio Fans Club, che sta crescendo con me e al ritorno dalle trasferte non fa mai mancare una bella festa».
Un corridore che ti ispira?
«Come caratteristiche preferisco il Boo­nen dei tempi migliori a un velocista puro come Cavendish. Meglio uno che attacca sui muri del Fiandre piuttosto che uno che vince tanto ma solo nelle volate di gruppo».
Un collega che apprezzi?
«Vado d’accordo con tutti o almeno ci provo. Se devo fare qualche nome mi ven­gono in mente i miei compagni di fiducia, quelli con cui sono cresciuto: Guarnieri, Cimolai, Oss. Se penso a un campione già affermato mi viene invece subito in mente Ivan Basso. Ho avu­to modo di conoscerlo soprattutto ne­gli ultimi mesi, scoprendo di avere co­me capitano un leader in tutto e per tutto. Correrci assieme mi ha fatto ca­pire quanto riesca a essere il fulcro della squadra per carattere e senso di responsabilità, per quanto richiede a ognuno di noi e quanto allo stesso tempo è disposto a dare. Al Giro del Colorado e al Padania quando si è mes­so a mia disposizione mi ha dato grande fiducia e ha dimostrato di essere umile, è stato un onore».
A proposito invece di compagni veloci, che rapporto hai con Peter Sagan?
«Un rapporto fantastico, basti pensare che quando alle gare non c’è suo fratello Juraj, dal quale non si stacca mai, è sempre in camera con me. L’ho conosciuto nel 2008 quando è arrivato alla Marchiol. Ricordo la prima volta che l’ho visto: eravamo a una cena a Ce­cina, io tornavo da una Coppa del Mondo e nessuno mi aveva parlato di lui. Quando arrivai l’unico posto libero a tavola era vicino a lui, mi sedetti e per due ore stette zitto, finché gli chiesi “Ma tu chi sei?”. Mi rispose con le due parole di inglese e le tre di italiano che sapeva. Capii fin da subito che era un personaggio. Ab­biamo vissuto un pe­riodo assieme nella casetta della squadra: nessuno gli dava corda perché era difficile comunicare con lui, ma soprattutto perché faceva duemila domande. A me questo ragazzetto di 18 anni, che arrivava in macchina dalla Slovacchia, faceva quasi pena, quindi lo aiutai ad integrarsi in­segnandogli un po’ di italiano. E pensare che adesso parla addirittura trevigiano... Quando l’ho visto pedalare ci ho messo poco a capire che aveva talento, dall’anno scorso ha dimostrato a tutti che è un fenomeno».
E invece con il tuo compaesano Guardini come ti trovi?
«Da quando siamo piccoli siamo rivali in gara, ma amici fuori dalle corse. È dalla categoria G4, quindi da più di dieci anni, che in volata o mi invento qualcosa o ha la meglio lui. Ci conosciamo e confrontiamo da una vita, sono realista: lui è più veloce, ma io tengo meglio quando il percorso si fa più duro».
Facciamo un bilancio di questi tuoi due anni nella massima categoria.
«In queste due stagioni tra i grandi ho imparato a fare attenzione ai particolari: che si tratti di alimentazione, preparazione o qualsiasi altra cosa. Ho ri­spettato le aspettative mie e della squa­dra. Sono passato professionista ad aprile con tanta paura di soffrire il sal­to di categoria, invece è subito arrivata la vittoria e risultati incoraggianti, che mi hanno dato morale e sicurezza, mi hanno permesso di acquisire rispetto in gruppo e un certo ruolo in squadra. L’esordio è stato fondamentale e il fi­nale della prima stagione è stato mol­to positivo. Dopo le tre vittorie nell’anno del debutto (sesta tappa del Tour of Turkey, Memorial Pantani, Memo­rial Frank Vandenbroucke) quest’anno mi sono più che confermato (ha conquistato otto successi: Gp Costa de­gli Etruschi, 1a prova del Tour de Mum­bai, prima tappa del Giro di Slovenia, Gp Nobili Rubinetterie Coppa Città di Stresa, quarta e quinta tappa del Giro del Colorado, seconda tappa del Giro di Padania e quarta tappa del Giro di Pechino, ndr)».
La Liquigas sembra offrire il clima ideale per un giovane talento come te.
«Esatto. Alla Liquigas stanno proseguendo il progetto a lungo termine sui giovani iniziato con Nibali e Kreuziger e hanno cominciato a raccogliere i frutti. In questa squadra mi sento curato, seguito, considerato ed è quello che conta di più. Per questo correrò almeno altri due anni con questa società: ci rimetto quattro soldi, ma non voglio correre il rischio di uscire da un ambiente in cui mi trovo benissimo. Magari tra quattro anni il discorso cambierà, ma per ora non se ne parla proprio di cambiare aria. I compagni sono amici prima che colleghi, in ritiro a San Pellegrino è sempre una festa, lo staff è affidabile. Qui sono davvero tranquillo e a mio agio, il che rende tutto più semplice, anche vincere».
La Liquigas è anche l’unica squadra italiana, che ha dimostrato di essere in grado di mettere in piedi un treno per le volate.
«Eh, sì. Oggi manca la mentalità che c’era in squadre come la Fassa Bortolo e la Domina Vacanze, costruite tutte at­torno a uno sprinter, ma se mettessimo assieme tutti i nostri corridori veloci gli uomini per un progetto del genere non mancherebbero. Già lavorando un po’ per uno, tra me, Sagan, Oss, Sabatini, Bodnar e tutti gli altri riusciamo a prendere in mano le corse negli ultimi chilometri. Quando i miei compagni lavorano per me sono loro molto grato e riconoscente. Quando si vince e c’è da pagare una bottiglia in più la offro volentieri, quando perdo invece mi di­spiace un sacco perché mi sembra di averli fatti lavorare per niente. La loro fiducia e il loro supporto sono tra gli ingredienti fondamentali per arrivare alla vittoria».
In America abbiamo visto sbocciare un bellissimo feeling tra te e Oss.
«Daniel ha dimostrato di essere un apripista eccezionale e le sue “menate” sono una caratteristica che pochi in gruppo possono vantare. Al momento è l’ultimo uomo migliore che abbiamo in Italia, tanto che Bettini al mon­diale gli ha affidato proprio il ruo­lo di apripista di Bennati. Tra noi si è creata un’intesa speciale, ci basta uno scambio di sguardi per intenderci. Ave­re lui come ultimo uomo è un vantaggio considerevole: la mia fame di vittoria è anche per ripagare gli sforzi suoi e degli altri nostri compagni. L’an­no scorso abbiamo gareggiato poco assieme, mentre in quelle due settimane ol­treoceano l’ho avuto sempre al mio fianco e abbiamo scoperto questo feeling unico. Pensa che all’ultima tappa del Colorado, quella che ha vinto lui, all’ultimo chilometro ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere, quindi gli ho detto: “Ho capito!” e gli ho fatto il bu­co. Il gesto rockettaro che ho fatto all’arrivo era in suo onore, quello era l’Oss Day. Mettermi una volta io a sua disposizione era il minimo per ripagarlo di tutte le volate in cui mi ha aiutato lui. Qualcuno mi ha anche criticato, ma io sono convinto che la riconoscenza sia un dovere».
Con le vostre volate negli USA siete di­ven­tati delle star...
«In America è facile diventare una star, soprattutto se hai alle spalle un’azienda come la Cannondale che punta a promuovere la tua immagine con stand, gadget, cartelloni e chi più ne ha più ne metta. Dopo le prime due vittorie, al terzo giorno urlavano tutti il mio nome, quasi incredibile. Però a dirla tut­ta la vera star lì è Sagan, le sue vittorie al California l’hanno reso famosissimo. In tutte le pubblicità della Can­nondale al posto di Basso e Ni­bali c’è lui. La Cannondale non poteva sperare in un personaggio migliore. Obiettiva­mente uno che dopo l’arrivo va al podio im­­pennando non può che diventare una star (sorride, ndr)».
Ci racconti com’è andata la registrazione del video Never settle?
«Quest’anno è stata data un po’ più di libertà all’addetto stampa Paolo Bar­bie­ri e l’arrivo come secondo sponsor della Cannondale ha portato la squadra a investire di più sulla comunicazione (a cui gli americani tengono particolarmente), quindi siamo stati coinvolti per la preparazione del video di presentazione del team. Eravamo in Sar­de­gna, ci hanno ripreso durante qualche allenamento e poi abbiamo registrato delle clip di presentazione. Da ciascun botta e risposta, ab­biamo scelto le risposte migliori e il tutto è stato montato con la musica e la grafica giusta. L’idea del motto Never settle si spiega facilmente: venivamo da una stagione perfetta, difficile da ripetere, nonostante ciò non avevamo - e non ab­biamo - nessuna in­ten­zione di accontentarci».
Le tue battute sono tra quelle che fanno più ridere: hai mai pensato di fare l’attore?
«Il regista ha detto che se gli capiterà qualche fiction mi scritturerà. A parte gli scherzi, direi che me la cavo meglio in bici».
E invece ti è piaciuto posare con Modolo, Malori, Ulissi, Oss e Masciarelli per la copertina di tuttoBICI di gennaio?
«Sì, anche quella è stata un’oc­casione divertente e ha portato bene a tutti o, forse, semplicemente la redazione di tuttoBICI ci ha visto lungo».
Lì posavi con una racchetta da tennis, altro sport che ti appassiona.
«È proprio così. Zio Ezio, maestro di tennis per bambini, mi ha trasmesso questa passione. Lui segue tantissimo me e i miei fratelli per quanto riguarda lo sport, soprattutto Luca visto che co­nosce molto bene l’ambien­te calcistico. Gioco spesso con Fede­rico, mio amico storico bravissimo con la racchetta, che ogni volta me le suona di santa ragione. Mi piace molto anche lo sci, ma ne­gli ultimi tempi lo evito per non ri­schiare di farmi male».
Oltre allo sport cos’altro ti interessa?
«Vado spessissimo al cinema a vedere film di tutti i generi, dai più impegnati ai più leggeri. Il tempo libero di solito lo passo in famiglia, se non sono alle corse la mia domenica ideale è a casa, sul divano, a vedere tutti gli sport che vengono trasmessi: ciclismo, tennis e mo­tori in primis. Non sono un gran lettore, ma non mi perdo l’appuntamento in edicola con le riviste specializzate di ciclismo. L’ultimo libro che ho letto? Quello di Ivan (In salita contro vento, ndr), per conoscerlo meglio. In fatto di musica invece mi faccio guidare dai miei compagni, dipende con chi capito in camera, così passo dal rock di Oss alla musica da discoteca (tamarrissima) di Cimolai. A casa e in macchina ho sempre la radio accesa».
C’è un oggetto da cui non ti puoi separare?
«Una collanina che mi è stata regalata al battesimo, d’oro con raffigurata la Madonna. Ce l’ho sempre al collo, non la tolgo mai per paura di perderla».
La tua stagione è stata lunghissima?
«Nel finale di stagione molti mollano, io no e poi c’erano l’Europeo Elite ad Apeldoorn e la prima prova di Coppa del Mondo ad Astana per mettere in cascina i punti necessari a entrare nei primi otto per l’Olimpiade. Su strada ripartirò a gennaio, probabilmente dall’A­rgentina, ma prima avrò bisogno di ricaricare le pile in vista di una stagione importante».
Dopo le Olimpiadi ascolterai chi ti consiglia di lasciare la pista per concentrarti solo sull’attività su strada? Rispondi di no, per favore.
«No, tranquilla. Io la pista non ho alcuna intenzione di abbandonarla e sono certo che chi mi dà consigli del genere non capisce molto di ciclismo. Mi ha sempre dato tanta soddisfazione, senza togliere nulla alle mie prestazioni su strada, anzi. Fino al 2012 svolgerò attività parallela con l’obiettivo di arrivare a Londra al top (non ci sono ancora programmi definitivi, ma se sarà possibile un’idea potrebbe essere quella di correre il Giro per preparare l’Olim­piade). Questa sarà la mia prima volta ai Giochi, spero vivamente arrivi la medaglia più prestigiosa, ma anche se non fosse così continuerò eccome a dare battaglia nei velodromi. A Rio nel 2016 avrò 27 anni, l’età ideale per puntare a un titolo così importante. Nei prossimi anni prenderò parte alle pro­ve di Coppa del Mondo e ai mondiali (quella maglia prima o poi deve essere mia!), non mancherò neanche alle Sei giorni, dove mi diverto io e si diverte il pubblico, ma salterò qualche appuntamento per provare a far bene nelle classiche. Se mollassi la pista sono sicuro ne risentirebbero (in peggio) anche le mie prove su strada, in più credo che la mia attività multidisciplinare sia un bel segnale per l’Italia che pedala. Con il commissario tecnico Marco Villa cerco sempre di motivare i ragazzi più giovani di me a disputare entrambe le discipline, bisogna avere una nuova mentalità e lottare perché le squadre permettano ai loro atleti di correre in pista».
Cosa sogni per il tuo futuro?
«Per quanto riguarda il ciclismo il pri­mo sogno è l’Olimpiade di Londra, che mi farebbe accedere a un pianeta riservato a pochi eletti. Guardando più avanti penso alle classiche, ma più come obiettivi che come sogni. Per la mia vita più in generale, spero di trovare la ragazza giusta per andare a vivere con lei e costruire una famiglia tutta mia. Il ciclismo è tutto, ma gli affetti restano la cosa più importante».

di Giulia De Maio
da tuttoBICI di novembre

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