GINI. Che bravi, i miei gioielli sudamericani

| 01/08/2011 | 09:44
Lui da ragazzo giocava a calcio con gli amici, loro lavoravano nei campi per mantenere la fa­miglia. Lui non ha mai cor­so in bici, per loro le due ruote sono l’unica possibilità di riscatto.
Nonostante provengano da due mondi diversi, da tre anni Franco Gini, Joses Cayetano Sarmiento Tunarrosa e Carlos Alberto Betancur Gomez sono uniti da un rapporto che assomiglia tanto a quello prezioso tra padre e figli.
Questo legame speciale tra il direttore sportivo dell’Acqua&Sapone Caffè Mo­kambo e le due promesse colombiane è nato dalla passione comune per lo sport più bello del mondo e si è rafforzato successo dopo successo prima sullo sfondo dei colori della nazionale colombiana, poi della squadra abruzzese. Que­sto legame è destinato a dare altre soddisfazioni, sia a lui che a loro. Que­sto legame ha offerto e offrirà al mondo delle due ruote lo spettacolo che solo gli scalatori di talento sanno regalare.
Abbiamo fatto due chiacchiere con Fran­co Gini, al suo ventiseiesimo anno sull’ammiraglia di un team della massima categoria, per fare il punto sulla formazione capitanata da Stefano Garzelli (che Gini dirige dal 2004) e per scoprire qualcosa in più di questi due sudamericani che al Giro hanno iniziato a farci vedere di che pasta sono fatti.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando hai lasciato il calcio per la bicicletta...
«Eh, sì. Tanti anni, ricchi di soddisfazioni e di emozioni. Pensa che la mia pri­ma licenza da ds risale al 1978, quando iniziai l’avventura nel ciclismo con gli juniores della Vivai Cenaia. Anche dal primo anno nel professionismo con la Remac di Fanini ne è passato di tem­po. Di esperienze ne ho fatte e qualcosa ho imparato (sorride, ndr)».
Tra le tante esperienze c’è anche quella, più che mai attuale, di responsabile tecnico della nazionale colombiana.
«Sì, quest’avventura è iniziata nel 2006, quando avevo in squadra Mauricio So­ler e il presidente della federazione ci­clistica colombiana dell’epoca mi chiese una mano per far crescere la nazionale Under 23. Tra i mondiali di Salisburgo e Stoccarda ho scoperto un bel vivaio, tanti ragazzi promettenti, di cui mi ha impressionato fin da subito la voglia di emergere».
Questa nazione sta puntando molto sul ciclismo per migliorare la sua immagine in ambito internazionale.
«La federazione sta sviluppando un progetto interessante, che può far leva su un bacino ampio e in crescita. A li­vello di nazionale i colombiani devono ancora imparare molto, per certe cose sono un po’ pasticcioni (i corridori co­lombiani non hanno preso parte al Gi­roBio per un banale quanto determinante problema di visti, ndr), ma hanno voglia e tutte le carte in regola per crescere e fare bene. Per questo, secondo me, vale la pena dar loro una mano e investire perché facciano esperienza in Europa».
Cosa ti affascina di questi atleti?
«La voglia di cambiare, in meglio, la lo­ro vita. Il loro volere aiutare il più possibile la famiglia a cui sono legati in ma­niera viscerale. Il loro rispetto per il la­voro e l’abitudine alla fatica. Il loro at­taccamento alla nazione. E il loro in­dubbio talento na­turale».
Alcuni di loro negli ultimi anni ti hanno regalato grandi soddisfazioni.
«Indimenticabili. Da pelle d’oca la loro incredulità nel vedere dove sono riusciti ad arrivare. Dal mondiale Under 23 di Varese 2008 conquistato da Fabio Duar­te, primo mondiale per la Colom­bia, alle ultime due edizioni del Gi­roBio con Sarmiento nel 2009 e la doppietta con Betancur e Beltran nel 2010. Credo molto in questi ragazzi, per que­sto l’Ac­qua&Sapone ha deciso di permettere agli ultimi vincitori del GiroBio di passare al professionismo».
Sarmiento e Betancur li abbiamo visti al Giro: come giudichi nel complesso la corsa rosa della Acqua&Sapone?
«Molto buona. È mancata la vittoria di tappa, ma abbiamo portato a casa, grazie all’eterno Garzelli, una maglia verde che vale tanto. Siamo stati sempre presenti nelle fughe e i nostri giovani han­no dimostrato che faranno strada; oltre ai due colombiani, ci tengo a sottolineare la buona prova di Taborre. Adesso li aspetta un’estate di corse in Italia e all’estero».
Raccontaci qualcosa in più dei due giovani talenti colombiani.
«Sarmiento è del 1987, è di Arcabuco. Professionista dal 2010, è il perfetto uomo squadra al servizio di capitan Garzelli. Per quanto riguarda il fisico è il classico colombiano: magrolino (1.68 cm per 56 kg), scalatore pu­ro. Ascolta mol­to e non sgarra mai, ubbi­dien­tis­simo. Be­tan­cur è del­l’89 e arriva da Bolivar An­tio­quia. Questo è il suo primo anno nella massima categoria; 1.67 cm per 60 kg, ha i valori dei grandi, è un fe­no­meno. Mas­siccio, mi ricorda il Bettini dei primi tempi, però più forte in salita. È anche veloce in arrivi di gruppo ri­stretti, in­som­ma va su tutti i terreni. Molto più estroverso di Cayetano, è un bambinone biondo».
In cosa sono diversi dai loro coetanei italiani?
«Sono molto umili, anche se hanno vin­to en­tram­bi già pa­rec­chio non si sono montati la testa e vogliono sfruttare l’occasione che il ciclismo sta dando lo­ro per dare una svolta alla vita. Basta un aneddoto per inquadrarli: lo scorso anno, tre giorni prima del GiroBio ho detto loro di fare tre ore, di ritorno dall’allenamento tutti contenti mi hanno detto: “Franco, abbiamo fatto tre volte il Monte Serra”. Se a un altro ragazzo avessi detto di fare quella salita una vol­ta sola, sono certo che mi avrebbe mandato a quel paese».
Quando li hai conosciuti?
«La prima volta che li ho incontrati è stata al GiroBio del 2009. Ricordo co­me fosse ieri i loro occhi sgranati da­vanti alle De Rosa nuove che avevamo fatto arrivare per loro. Avevano l’espres­sione che un ragazzo italiano avrebbe oggi se ricevesse in regalo una Ferrari. Di pri­mo acchito ho pensato: “Questi dove vo­gliono andare?”, ma appena li ho vi­sti in azione mi sono ricreduto. Osser­vand­oli pedalare in salita coi migliori ho capito che avevano grandi potenzialità. Per di più erano alle loro prime esperienze perché hanno iniziato entrambi a correre a 17 anni e, fin da subito, hanno dimostrato di volersi impegnare al cen­to per cento».
Che rapporto hai con loro?
«Mi considerano quasi il loro papà, a volte nello staff mi prendono in giro ri­petendo la loro frase standard “Franco dice sì allora è si, dice no allora è no”. Io li tratto amichevolmente, ma quando serve non risparmio loro una strigliata. Sono un punto di riferimento. Vivono vicino a casa mia, in un appartamento a Santa Maria a Monte (PI), insieme agli Elite e Under 23 della Cargo Compass. In Italia si trovano benissimo: si allenano con i tecnici del team dilettantistico Balducci e Massini, con gli altri ragazzi convivono al meglio, non si lamentano di niente e parlano già un buon italiano».
Caratterialmente come sono?
«Betancur è molto vivace, è sempre pronto allo scherzo, un burlone. Per farti un esempio, capita che arriviamo in aeroporto e fa finta di aver dimenticato il passaporto. È un giocherellone, ma quando serve sa essere serio. Sar­miento invece è un “omino”, un tipo molto più tranquillo e pacato. È un gran lavoratore, al Giro non so quante borracce abbia portato ai compagni».
In squadra hanno un soprannome?
«Sarmiento è “chupito”, ma non ho an­cora capito bene il motivo; Betancur non si può dire (sorride, ndr). Diciamo che i compagni lo chiamanto “testina di...”».
Quando non pedalano, come passano il tempo?
«Sono sempre collegati a internet. Usa­no il computer per scrivere a casa e per vedere le fidanzate che vivono in Co­lombia».
Ti hanno raccontato da che mondo ar­rivano?
«Più volte, perché sono molto legati alle loro radici. Provengono da una realtà povera, con gli studi non hanno avuto la possibilità di andare oltre a quelle che noi chiamiamo scuole medie. Be­tan­cur mi ha spiegato che dopo la scuola andava a lavorare con il babbo nei campi, non aveva alternative. Con i ri­sultati che hanno ottenuto sono riusciti a dare una grande mano ai loro genitori. Cayetano ha comprato loro la casa dove vivono a 2.800 metri di altezza. Carlos, che ha cinque fratelli e il cui pa­dre fino a qualche tempo fa guadagnava 250 euro al mese, viveva insieme al resto della famiglia in una capanna nei campi, ma con il secondo posto al mondiale di Mendrisio e la vittoria al Gi­roBio ha ricevuto dal governo della sua regione una casa, che mi ha descritto come bellissima. Ora il padre e lo zio hanno comprato un bar e mantengono i numerosi figli senza dover più faticare nei campi».
Cosa ti aspetti da loro?
«Credo faranno un bel finale di stagione, mi hanno chiesto di rientrare 10 giorni prima del Brixia (i due ragazzi dopo il Giro sono tornati in Colombia, ndr) per ambientarsi e trovare la gamba giusta per i prossimi appuntamenti. Hanno dimostrato di tenere bene nelle corse a tappe, ma a mio avviso possono dire la loro anche in quelle di un giorno. Soprattutto Betancur, che sa inventarsi il numero su qualsiasi terreno».
Come te li immagini tra dieci anni?
«Se continuano con l’umiltà di ora, mi aspetto di vederli tutti e due in una grande squadra».
Quali dei tanti corridori che hai avuto ti ricordano?
«Sarmiento è Casagrande. Betancur è Bartoli, ma più scomposto in bici di quel gioiello che era Michele in sella».
Un altro ragazzo, non per forza colombiano, che vorresti sotto la tua ala?
«Edward Beltran, al Girobio dell’anno scorso mi ha impressionato. Ha chiuso secondo, ma non ha mai potuto attaccare Betancur che era suo compagno. Sembra Contador, è un talento nato».
Il nome di un giovane che potrà dare filo da torcere ai “tuoi” colombiani?
«Diego Ulissi, mi piace molto».
Che soddisfazione si prova a guidare dei ragazzi che promettono di di­ventare dei campioni?
«L’obiettivo per chi guida una squadra professionistica è sempre quello di portarli il più in alto possibile. Cono­scen­do le loro storie, mi auguro di riuscire nel mio compito per regalare altre belle emo­zioni a loro e, perché no, anche a me».

da tuttoBICI di luglio
a firma di Giulia De Maio

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