L'inchiesta di tuttoBICI. Corsetti: questione di cuore

| 04/02/2011 | 09:00
Ha a cuore il ciclismo e per sua natura va sempre al cuo­re delle cose. Perfezio­nista, generoso, appassionato e passionale: Roberto Corsetti, 50 anni di Arce (Frosinone), ciociaro doc («la ter­ra che ho nel cuore e nella qua­le spero di poter tornare quando smette­rò di lavorare») è senza dubbio uno dei medici sportivi più affermati del nostro sport. Responsabile sanitario della Li­quigas Cannondale, da due è il me­dico dei medici, nel senso che è il presidente dell’associazione (A.I.Me.C, ndr) che raggruppa tutti i medici delle due ruote. È a lui che ci siamo affidati questo mese per proseguire il nostro viaggio nelle vi­scere del mondo del ciclismo. Laureato in Medicina e Chi­rur­gia presso l’Uni­ver­sità Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Specialista in Cardiologia e in Me­dicina dello Sport, Roberto Corsetti ha da sempre il ciclismo nel sangue. Ci­cli­sta agonista nelle categorie giovanili («come atleta ero piuttosto mediocre»), poi gli studi universitari, con il ciclismo ad ispirarlo in tutto e per tutto: tre tesi, una di laurea e due di specializzazione, che trat­tavano argo­menti di medicina e cardiologia dello sport applicata al ciclismo. Autore dal 1988 al 1998 di innumerevoli lavori scientifici pubblicati su riviste na­zionali ed internazionali, nel febbraio 1999 è al lavoro nel reparto di Car­dio­logia del Policlinico Umberto I di Ro­ma, quando squilla il telefono. È Gian­carlo Ferretti, uno dei più vincenti ed esperti team manager che il ciclismo abbia mai avuto.
«Lo avevo conosciuto nel dicembre 1996 a Capannori, in un corso organizzato dalla Lega e diretto ai Di­rettori Sportivi del professionismo. Si era registrata la defezione improvvisa di un mio collega che doveva svolgere una relazione-lezione e così mi chia­mò Angelo La­varda il giorno prima e mi chiese se fos­si stato disponibile ad intervenire. Dissi subito di sì. E decisi di presentare i pri­mi dati di un lavoro sperimentale che stavamo effettuando presso il Cen­tro Studi di Medicina del­lo Sport del­l’U­ni­versità Cattolica del Sacro Cuore di Ro­ma, diretto dal mio maestro il Pro­fessor Paolo Zeppilli. Con una tecnica elettrocardiografica raffinata (analisi della va­riabilità R-R) studiavamo l’over­training e gli stati di fatica acuta e cronica. Pas­sai tutta la notte a rendere il più at­traente e stimolante possibile la mia presentazione e il giorno dopo, du­rante l’esposi­zio­ne, percepivo, con non poca soddisfazione, un grande interesse da parte di tutti. Una persona in par­ti­colare si mo­strò molto attenta: Gian­car­lo Fer­ret­ti. Alla fine del corso si av­vicinò e mi chiese se avessi potuto ef­fettuare lo stesso studio sugli atleti del­la sua squadra. Nel 1997 ho avuto la possibilità di testare otto atleti della MG più volte durante la stagione e in diversi periodi di forma e di impegno agonistico. I ri­sultati, davvero importanti, furono oggetto di due relazioni distinte nell’ambito di convegni di me­dicina dello sport applicata al ciclismo e di altre relazioni e lavori scientifici anche nell’ambito della Cardiologia dello Sport».
Quando la chiamò Ferretti, cosa le chiese?
«A bruciapelo mi chiese se accettavo di diventare il responsabile sanitario della sua nuova squadra, la Fassa Bortolo, che sarebbe nata nel 2000. Due le condizioni: accettare di trasferirmi vicino alla sede operativa della squadra, ossia in Romagna, e dare una risposta entro 24 ore. Gli chiesi solo il tempo di terminare il giro della visite in reparto per pensarci un attimo con calma. Lo ri­chia­mai dopo circa quattro ore dicendo che mi sarei trasferito in Romagna, co­sa che feci di li a pochi mesi. Così è co­min­ciata la mia avventura nel ciclismo. Confesso che ancora mi tremano le gam­be ricordando quel giorno e i mesi successivi, quelli dei primi veri contatti con il mondo del ciclismo professionistico».
Cosa ricorda in particolare?
«L’enorme soddisfazione nel toccare con mano quello che conoscevo a di­stanza solo grazie alla mia enorme passione e alle cronache dei giornali. Mi riferisco al percepire chiaramente che il ciclismo stava valutando attentamente i danni devastanti procurati dal fenomeno doping all’intero movimento e che, all’interno delle squadre, iniziavano ad or­ganizzarsi i primi avamposti della guer­ra alla piaga che sino a quel mo­mento si era andata allargando nel­le maglie del sistema. Rileggo spesso il primo regolamento sanitario interno della Fassa Bortolo del 2000. Ferretti ve lo potrà confermare, volle che tutti gli atleti lo firmassero per approvazione. Lo scrissi io di mio pugno dopo aver passato qual­che giornata nel vivo del sistema. Si trattava di 18 articoli racchiusi in un documento di quattro pagine. Oggi in Li­quigas abbiamo un regolamento sanitario, un codice comportamentale e un disciplinare di quasi 20 pagine con una infinità di articoli e sanzioni, scrit­to da uno studio di avvocati con un lavoro di qualche mese. Tut­to ciò mo­stra chiaramente la grande attenzione che oggi la Liquigas dedica alla lotta al doping e alla trasparenza operativa. Nel 2000 quel regolamento, quale pri­ma forma di argine costituzionale e normativo interno al dilagare del fenomeno doping, fece epoca. Lo pos­so as­sicu­rare. Quando un giornale ne ri­cordò la nascita, persino una squadra di calcio di serie A ci chiese di averne una copia».
Questo per dire che cosa?
«Semplicemente che se è vero che non è opportuno nascondersi dietro un dito smentendo il dilagare del doping nel ciclismo negli anni ’80 e ’90, è pur vero che lo stesso movimento, in particolare gli attori principali di questo sport - i ciclisti, i direttori, i medici e gli sponsor - hanno cominciato per primi ad al­zare la guardia e le difese per contrastare la diffusione del doping, richiamando l’attenzione sul problema e chie­dendo aiuti di tipo normativo alle istituzioni di riferimento».
Quali sono state le tappe principali?
«Sono stati gli atleti, gli sponsor e i me­dici a chiedere per primi l’isti­tuzione dei limiti del 50% per l’ema­tocrito e del 17 per l’emoglobina. Il ci­clismo è stato il primo sport al mon­do ad introdurre tali limiti nella seconda metà de­gli anni ’90. E poi è stato il naturale pre­cursore di tante altre no­vità. La ri­cerca dell’eritropoietina eso­gena nelle urine - obiettivo raggiunto nei primi anni del Duemila -, è stata fortemente voluta dal mondo del ciclismo e accettata, come metodo antidoping, prima di ogni altra disciplina. Non finiscono qui le novità dell’antidoping vissute dal ciclismo, e in particolare dai ciclisti, con spirito pionieristico. Ricordiamo an­che i controlli a sorpresa al di fuori delle competizioni sulle urine e poco dopo - sempre prima disciplina sportiva al mondo - anche sul sangue. E an­co­ra, l’obbligatorietà a fornire la reperibilità ora per ora (giorno e notte) per tutti i giorni del­l’an­no. L’introduzione del pas­saporto biologico, sia co­me mar­ker di variazioni so­spette, da indagare in immediato con test antidoping mi­rati e a sorpresa sul sangue e sull’urina, sia come prova in­diretta di vio­la­zione del­le normative antidoping. Pro­va indiretta per­ché, in tal caso, il pas­saporto biologico non accerta la presenza di una sostanza proibita nel sangue e/o nelle uri­ne ma solo una variazione eccessiva di alcuni pa­rametri ema­tici che potrebbe essere stata determinata dal ricorso a sostanze e/o me­to­di proibiti».
Beh, non si può certo dire che si è stati con le mani in mano…
«Vede, io non condivido nel modo più assoluto le tesi di chi sostiene che nel ci­clismo il doping non è esistito o peggio ancora che non esiste più. Mi sembrano però altrettanto strumentali e non condivisibili le tesi di chi afferma che nulla è stato fatto e, so­prat­tutto, che nulla è cambiato. Chi vi­ve il ciclismo dal di dentro e con co­gnizione di causa non può non notare che quello del 2010, in tema di diffusione del fe­nomeno doping e forza efficace del si­stema antidoping, è un ciclismo che non si può pa­ragonare a quello del 1980, che non è nemmeno il lontano parente di quello degli anni ’90 e che è anche nettamente migliore di quello dei primi anni 2000. Oggi mi sento di poter dire che il do­ping nel no­stro sport è in costante e progressiva ri­du­zione. Questo an­che e soprattutto gra­zie alla decisa presa di coscienza di sponsor, dirigenti e atleti. E non solo grazie al pur importantissimo apporto delle in­dagini condotte dalla magistratura e all’inasprimento delle sanzioni».
Senta presidente: si riuscirà un giorno a sconfiggere il doping?
«Il doping è una piaga che coinvolge in generale tutta la nostra società: non so­lo il mondo dello sport. È figlio di una certa pigrizia men­tale che porta a pensare di poter raggiungere un obiettivo con il minimo impegno semplicemente percorrendo una scorciatoia. Se nostro figlio dovesse copiare un compito in classe da un compagno più bravo di lui, probabilmente potrebbe prendere un bel voto che, di fatto, non meriterebbe. Se poi noi genitori, per mancanza di tempo o di voglia, dovessimo seguire i no­stri ragazzi in modo superficiale, po­tremmo non renderci conto che quel voto non è corrispondente alle reali ca­pacità di nostro figlio. Lo staff dirigenziale e tecnico di una squadra che vo­glia realmente combattere il doping, de­ve fare il buon padre. Deve essere una buona fa­miglia. Per raggiungere questo, sono necessarie conoscenze pro­fonde, presenza costante e ovviamente il lavoro di équipe».
Non crede che i controlli debbano essere affidati ad un Ente super partes?
«È necessario che questo avvenga. Ma è ancora più importante che i test siano affidabili e validati in tutto e per tutto. Negli ultimi tre o quattro anni, non so­lo nel ciclismo, tutti hanno intuito che il sistema antidoping, se eccessivamente aggressivo e integralista, può anche fare delle vittime innocenti. E questo non deve succedere. In medicina e in clinica si stabilisce la qualità di un test diagnostico sulla capacità di differenziare i positivi veri dai falsi positivi. Eb­bene, anche il sistema antidoping de­ve prestare le maggiori attenzioni e le più ampie garanzie nei confronti dei “falsi dopati”. Preferisco, nella vita di tutti i giorni come nello sport, un sistema che lasci semmai impunito un colpevole, ad un sistema che corra il ri­schio di punire un innocente».
Si riferisce al passaporto biologico e alla vi­cenda Pellizotti.
«Mi riferisco in genere al rischio di pu­nire un atleta con una pena anche pe­sante e con la pubblica vergogna quando non sussistono prove certe di violazione delle norme. Certo, la vicenda Pellizotti è quella che conosco me­glio ma ho letto di molti casi ultimamente, nel pa­no­ra­ma internazionale, che mi fanno nascere il dubbio che in futuro la vis dell’antidoping, se non ben gestita, possa in taluni casi rischiare di travolgere chi non lo merita. Il si­stema dei controlli deve essere intransigente e sospettoso anche all’inverosimile, ma comunque, prima di sanzionare un atleta è necessario avere l’as­so­luta certezza della sua colpevolezza».
Cosa si augura?
«Come dicevo in precedenza, un sistema svincolato e super partes, che effettui e diriga i controlli con al proprio in­terno veri esperti in materia. Che sappiano quindi molto bene quando, come e in quali circostanze un atleta può ca­dere nella tentazione di violare le nor­me. Questa è la premessa indispensabile per poterlo colpire e trovarlo con il cosiddetto sorcio in bocca. Ben vengano pertanto anche i controllori che ope­rano in perfetta sinergia con la ma­gistratura».
Uno dei grossi problemi della giustizia sportiva (non solo sportiva, ahimé) è dato dai tempi: sempre troppo lunghi.
«La vicenda Pellizotti ci insegna che c’è stata una pessima gestione dei tem­pi. Per una supposta variazione anomala relativa ad un controllo del 2 luglio 2009 non si può decidere che dovranno essere richieste spiegazioni all’atleta so­lo il 6 dicembre e non si può comunicare il sospetto di anomalia e la richiesta di spiegazioni il 3 marzo 2010. Una volta ricevute le spie­gazioni da parte dell’atleta (pervenute in venti giorni, ndr) non si può attendere un altro me­se e comunicare l’ini­zio della procedura solo il 4 maggio, tre giorni prima della partenza del Giro d’Italia. Per non parlare di tut­to il resto. Ricordo solo che Franco è stato assolto dal TNA il 20 ottobre scorso: il suo calvario è durato quindici me­si e non è an­cora finito. Ad oggi non sappiamo se l’Uci deciderà di fare ricorso al TAS. Qualora decidesse di farlo, è ipotizzabile che il tutto finirà nella primavera di quest’anno: quasi due anni dopo quel controllo del Tour del 2009».
Mi sembra evidente che serva una revisione profonda dei tempi e dei modi del passaporto biologico…
«Non so cosa serva. Soprattutto non vo­glio sostituirmi a chi è deputato a re­golamentare il progetto. Però mi sem­bra evidente che qualcosa non funzioni per il verso giusto. Tenga presente che la carriera di un ciclista professionista solitamente dura una decina di anni. Le sembra giusto che un atleta ne per­da due nell’attesa che qualcuno gli dica se si è dopato o no?».
Come nel gioco dell’oca, rieccoci al pun­to di partenza: chi controlla i controllori?
«Anche la stessa Uci potrebbe rappresentare tale figura, sia chiaro. Ho una grande fiducia nell’Uci, l’ho sempre dichiarato e non è una novità. Ma è ne­cessario che si riavvicini alle varie componenti del ciclismo e che ne per­ce­pisca più da vicino umori, critiche, consigli e stimoli. Incontri, dibattiti, richiesta di pareri non indeboliscono una istituzione ma anzi aumentano i consensi e le condivisioni operative. Mi piacerebbe pensare che in futuro - sia in ambito nazionale che in quello internazionale - gli enti di riferimento cerchino di creare, prima di emanare delle norme, maggiori confronti culturali e scientifici con chi opera sul cam­po. Noi medici del ciclismo nel recente passato abbiamo dimostrato ampiamente la vo­lontà di confrontarci con le istituzioni e gli enti di riferimento. È sufficiente os­servare i contenuti, gli interventi, i relatori invitati agli ultimi nostri convegni. Tutti sappiamo che il doping deve essere sconfitto e nel più breve tempo possibile. Servono però norme efficaci, controlli mirati sulla base di esperienze profonde. Ma l’antidoping del futuro non può prescindere dalle conoscenze di quanti - sponsor, team manager, di­rettori e medici -, il doping lo combattono all’interno dei rispettivi team. Il caso Pellizotti, e non solo quel­lo, ci ha insegnato come sia difficile standardizzare e normare tutto il sistema dei prelievi: dalla conservazione dei prelievi, al trasporto; dalla taratura degli strumenti di analisi, all’analisi stessa. Nor­me precise sulla catena di custodia dei campioni del passaporto biologico Wa­da-Uci sono state emanate solo nel gen­naio 2010 (i primi pre­lie­vi era­no iniziati nel novembre 2007!). E un’altra cosa che non capisco è come si possa pensare a sistemi light di passaporto biologico a livello nazionale in ambito giovanile. A fronte di spese im­portanti è altissimo e assai probabile il rischio di trovarsi nelle mani una serie di dati che, per mancanza dei necessari controlli della catena di custodia, siano inutilizzabili e quindi inutili o pericolosi. Pericoloso è infatti sia il rischio di non individuare i veri dopati sia, ancor di più, quello di punire per un errore analitico o preanalitico un innocente».
Lei è si è sin da subito schierato a fianco di Franco Pellizotti: come si è convinto della sua innocenza?
«Innanzitutto conosco Franco dal 2005. Non è poco. E, lo sanno tutti, so­no un medico che fa del ciclismo la sua principale, quasi esclusiva attività. Quindi passo molto tempo durante l’anno insieme agli atleti ad ascoltare e a capire. Quando ho saputo della ri­chiesta di spiegazioni dell’Uci ho capito che, giustamente, la dirigenza della Liquigas mi avrebbe chiesto cosa ne pensavo. Ho studiato per due-tre giorni i 22 risultati del passaporto di Franco alla luce ovviamente delle considerazioni dell’Uci e delle mie conoscenze: così mi sono fatto una prima convinzione personale. Sulla base di quei 22 test non si poteva affermare che l’atleta avesse fatto ricorso a so­stan­ze e/o metodi proibiti. Subito mi è venuta in soccorso l’esperienza di ricercatore universitario e dei tanti la­vori scientifici in doppio cieco. Ho in­viato a due miei colleghi che considero tra i migliori, se non i migliori esperti in ematologia dello sport applicata, i ri­sultati dei 22 test. Senza fornire loro nessun altro tipo di considerazione, me­no che meno ovviamente il no­me dell’atleta: volevo da loro un giudizio spassionato, scientifico ma non con­dizionato. I due colleghi amici in questione erano il professor Giuseppe Ban­fi e il dottor Alberto Dolci. Dopo poche ore ricevetti le risposte. Secche e laconiche. Nessun sospetto di doping ma solo minime variazioni ampiamente nell’ambito della fisiologica variabilità interindividuale. Quello divenne di fat­to il conforto scientifico alle mie prime sensazioni e anche il momento della na­scita dello staff difensivo. Feci capire il mio pensiero sulla vicenda alla dirigenza della Liquigas e il resto è a voi noto. Pellizotti scelse poi di avvalersi di Dolci e Banfi come periti».
Sono stati mesi difficili, duri, pieni di astio e colpi bassi, prima di arrivare alla decisione del TNA…
«Sono sempre stato convinto delle mie impressioni e ho lavorato con impegno e passione per contribuire a scoprire la verità. Se Pellizotti fosse stato, o do­vesse essere in futuro ritenuto colpevole, la Liquigas ha una linea operativa in tal senso molto chiara e ben definita. Ba­sta guardare il precedente di Bel­tran. Ma, sin dall’inizio, abbiamo tutti avuto tanti dubbi e anche alcune certezze. Abbiamo deciso di scoprire la ve­rità quella vera. Ed è quello che ho fatto e che farò anche in futuro qualora l’Uci dovesse ricorrere al TAS. All’ini­zio sinceramente non riuscivo a capire come nove esperti di caratura internazionale avessero deciso di aprire un caso di possibile violazione del regolamento antidoping sulla base del profilo di quei 22 test. Non capivo perché, a mio parere, anomalie chiare ed evidenti non sembravano essere presenti. Ho dedicato a Pellizotti e alla sua vicenda tante energie, tantissimo tempo e mol­te attenzioni. Ma l’ho fatto con trasporto e generosità perché ero animato dalla volontà di capire, di ri­cercare la verità. Ho difeso sia chiaro, oltre alla reputazione di Pellizotti, an­che e so­prattutto le mie sensazioni e le mie co­noscenze de­rivate da una lunghissima esperienza in laboratorio e sul campo».
Qualche giornalista, durante l’estate, ha scritto che se Pellizotti fosse stato assolto sarebbe caduto tutto l’impianto del passaporto biologico e forse l’intero sistema an­tidoping…
«Quelle per me erano e restano delle esagerazioni. Visioni apocalittiche. La verità è un’altra e deriva sempre dal buon senso. Il passaporto biologico lo abbiamo fortemente voluto e non va abbandonato o rifiutato. È stato e sarà un’arma importante che ha permesso di indirizzare con maggiore efficacia i controlli sugli atleti sospetti. E qualcuno è stato pizzicato proprio grazie a questa capacità del passaporto di rappresentare un marker immediato di va­riazioni sospette. Inol­tre il passaporto biologico ha rappresentato una forte ar­ma di pressione e controllo sugli atleti che quindi, avvertita la sensazione di essere più controllati ma soprattutto di trovarsi al di sot­to della classica sgradita lente di in­gran­dimento, hanno capito che non si po­teva pensare di continuare a fare i fur­bi. Vittorie importanti e innegabili del passaporto, dell’Uci e del­la Wada. Diverso è il mio giudizio quando mi si chiede di giudicare il passaporto biologico come arma e prova diretta di pratiche illecite».
Cosa non va nel passaporto biologico?
«Non si tratta di una sola cosa, purtroppo. La più seria è che il range minimo e massimo di variabilità dei valori (quindi la cosiddetta forchetta entro la quale i valori devono restare) è sta­to probabilmente impostato sulla base di statistiche derivate da studi di popolazioni non simili a quella costituita da ciclisti professionisti di altissimo livello. E non è poco. Anzi, nei quattro stu­di pilota che stanno alla base delle im­postazioni statistiche del passaporto, i ciclisti sono pochissimi e sopratutto non di altissimo livello. È necessario tener presente che un ciclista professionista, come ad esempio Franco Pel­lizot­ti, percorre circa 45.000 km all’anno, corre due grandi corse a tappe di 23 giorni, effettua infiniti viaggi internazionali, gareggia per circa 100 giorni all’anno, effettua almeno quattro periodi di altura al di sopra dei 2.000 metri di almeno 20 giorni, effettua allenamenti e competizioni di 6-7-8 ore in condizioni proibitive di caldo e umidità o di freddo, pioggia, neve o grandine. Ebbene la popolazione di riferimento dovrebbe essere costituita da atleti con questi caratteristiche. In secondo luo­go, ci sono troppo poche garanzie sulla conservazione dei prelievi e sul trasporto, sull’intera fase preanalitica ol­tre che, ovviamente, sulla fase analitica vera e propria».
Situazione pesante?
«No. Anzi. Il passaporto biologico, co­me marker di atleti sospetti sui quali svolgere controlli antidoping mirati, è una fuoriserie, anzi una Ferrari che ha vinto tutti e tre gli ultimi mondiali ai quali ha partecipato. Diverso è il caso del passaporto biologico quando venga analizzato nella sua funzione di prova indiretta di doping. In tal caso appare più prudente parlare di una fuoriserie che, con molta probabilità, è stata lanciata troppo presto in pista senza la ne­cessaria verifica sul banco di prova. Co­me ho detto pubblicamente durante l’ultimo convegno dell’A.I.Me.C., il ve­ro banco di prova e quindi lo studio di maggior valore e significato statistico, per l’impostazione della forchetta e tut­ti i giusti coefficienti correttivi da ap­portare, non potrà che essere proprio la stessa banca dati del passaporto biologico. Certo dovremo aspettare qualche anno».
Pensa che qualcuno la ascolterà?
«Me lo auguro. Anche se non ne sono certo. È bene comunque che, come le di­cevo, gli enti e le istituzioni, sia a li­vel­lo nazionale che internazionale, pri­ma di emanare nuove norme abbiano l’interesse e la volontà di confrontarsi con la base operativa e quindi con gli staff dirigenziali, tecnici e scientifici delle squadre. Bisogna capire infatti che l’obiettivo, quello di sconfiggere il doping, è comune».
Cosa auspica per il futuro?
«Mi auguro che il presidente della com­missione tutela della salute della Federazione Ciclistica Italiana, il dottor Luigi Simonetto, e che il medico responsabile dell’Uci il dottor Mario Zorzoli, trovino al più presto volontà e maggiori occasioni per incontri di confronto scientifico con la base, con i me­dici che operano nelle squadre. Non di­mentichiamo in­fatti che i medici delle squadre sono le figure professionali che in primis sono chiamate a rispettare e a far rispettare le norme che gli enti di riferimento emanano».
Da due anni è presidente del­l’A.I.Me.C. e la co­sa che più colpisce è la vostro grande dialogo con le altre associazioni di ca­tegoria.
«Una associazione professionale culturale e scientifica come la nostra non de­ve rinchiudersi su se stessa, ma aprirsi e confrontarsi. Abbiamo riattivato ottimi rapporti di collaborazione con la Federazione Medico Sportiva e ci stiamo impegnando per far conoscere il no­stro potenziale contributo e la no­stra disponibilità operativa a condividere le conoscenze ad altre entità quali le associazioni dei corridori, dei direttori sportivi, dei gruppi sportivi, dei massaggiatori».
Recentemente ha partecipato anche al «Giorno della Scorta» a Faenza.
«L’ho fatto con molto piacere. Al contrario con meno piacere e molta meraviglia noto che in Italia stanno nascendo commissioni sulla sicurezza senza che al loro interno sia stata prevista la presenza di un medico esperto di ciclismo. Scelta non condivisibile. La sicurezza dei ciclisti e del ciclismo non è solo legata allo svolgimento della gara ciclistica, ma anche ai più delicati mo­menti degli allenamenti su strade con traffico aperto. Parlare di sicurezza è sinonimo anche di tutela della salute. Come si possono lasciare a casa i medici? Al contrario, questi dovrebbero ave­re un ruolo e una considerazione istituzionale anche da parte degli organizzatori delle corse quando si affrontano temi quali la sicurezza dei percorsi, le ore da dedicare al recupero, gli alloggiamenti, i trasferimenti, la durezza dei percorsi».
Se è per questo, anche al Giro Bio i medici non sono proprio visti di buon occhio.
«Spero che l’organizzatore Giancarlo Brocci, che stimo e che ho recentemente salutato nell’ambito di una premiazione, sappia prendere in considerazione nuovi sviluppi in tal senso. Nel 2009 il regolamento della corsa prevedeva che i medici sociali dovessero restare a casa. Adesso non è più co­sì. Ma non sarebbe male se lo staff sa­nitario centralizzato del GiroBio fos­se composto esclusivamente da medici dello sport che operano nel ciclismo, magari da quelli che non hanno squadre ai nastri di partenza. Ripeto, il do­ping lo si com­batte facendo squadra e la nostra è pronta a sfidare chiunque per il bene del nostro sport».
È appena tornato dalla Sardegna per uno stage con la sua squadra. Grande spazio alla valutazione funzionale e ai test biomeccanici.
«Dal 2008 è nato in Liquigas il settore interno che si occupa della preparazione e della valutazione delle performance degli atleti. Basta quindi ai preparatori esterni. Certo, l’impegno è da allora notevolmente aumentato e chiaramente anche gli investimenti. Aiuto mol­to volentieri e con grande passione l’amico Paolo Slongo, direttore sportivo responsabile della preparazione, nel­la effettuazione dei test di valutazione funzionale. E da tre anni sto progressivamente approfondendo le mie co­noscenze di biomeccanica ap­plicata allo studio della posizione in bicicletta. Proprio in Sardegna, con l’amico Gian­ni Pederzolli, appassionato come me di biomeccanica, abbiamo fatto cose mol­to importanti nella valutazione e della po­sizione in bici dei 29 atleti della squadra. A tal proposito non condivido quanti asseriscono che un medico non dovrebbe occuparsi di tali problemi. Se sono il primo a comprendere benissimo che in passato qualche medico-preparatore può aver procurato seri problemi al ciclismo, ri­tengo anche che ad un medico, specialista in Medicina del­lo Sport, con grande esperienza di ciclismo, appassionato di valutazione funzionale e biomeccanica, con un percorso dedicato di studi, lavori scientifici e riconoscimenti, non possa essere impedito di dare il suo contributo scientifico determinante in tal senso».
Come ha trovato Basso e Nibali?
«Incredibilmente motivati, straordinariamente fiduciosi, ma al tempo stesso sereni e rilassati. In forma e in salute. Basso è una sicurezza e un grande professionista che con ogni suo atteggiamento fa capire sempre a tutti gli altri che senza sacrifici e rinunce non si emer­ge. Di Nibali mi impressiona l’in­credibile e veloce maturazione uma­na e professionale. Il futuro è suo».
Ottimista?
«Sempre».

da tuttoBICI di gennaio a firma di Pier Augusto Stagi
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