La Stampa. Armstrong rischia di finire come Al Capone
| 28/07/2010 | 10:42 Al Capone finì in galera non per omicidio, ma
per evasione fiscale. Lance Armstrong potrebbe fare la stessa fine non
per essersi dopato, una pratica che negli States non è automaticamente
reato, ma per aver mentito ai suoi sponsor sul doping. L'America ai
suoi miti è disposta a perdonare molto, ma non le bugie infantili e le
frodi vigliacche, come Bill Clinton e Bernie Madoff possono confermare.
Caduto sulle strade del Tour, surclassato dal suo ex-compagno di
squadra Contador, relegato fra le news di contorno, un Armstrong
indebolito, isolato, pronto al secondo ritiro e non più protetto
dall'aura del fuoriclasse, ora rischia lo sprofondo giudiziario. Per la
gioia amara dei molti che, anche nell'ambiente, non hanno mai creduto
alla pulizia della sua favola sportiva. La Corte di Los Angeles,
come rivelato dal Wall Street Journal, sta valutando la possibilità di
rinviarlo a giudizio sulla base dei documenti e delle testimonianze che
negli ultimi mesi si sono attaccate come carte moschicida alla
coscienza del texano. Da quelle feroci di Floyd Landis, l'americano
compagno di squadra del Cannibale negli anni della US Postal, a cui è
stata tolta la vittoria nel Tour del 2006 proprio per aver assunto
sostanze illecite («Ho visto Lance doparsi con i miei occhi, e più
volte, con lui sono stato anche a un coca-party»), e degli altri ex
corridori Stephen Swart e Frankie Andru, che sostengono di aver sentito
Armstrong confessare l'uso di sostanze dopanti fra il ‘95 e il '96;
fino a quelle eccellenti dell'altro mito del ciclismo Usa, Greg Lemond,
anche lui convinto delle manovre illecite di Armstrong. La botta
decisiva potrebbe darla Jeffrey Tillotson, avvocato della Sca
Promotions, compagnia americana di assicurazioni che in passato ha
messo sotto contratto Armstrong come testimonial e che dal 2004 si
rifiuta di pagargli 5 milioni di dollari pattuiti per le vittorie
proprio sulla base delle ricorrenti accuse. Lance ha sempre negato
di aver pasticciato con siringhe e provette, e non è mai stato
formalmente inquisito, ma autografando i (munifici) accordi
pubblicitari si è sempre impegnato a non usare «aiutini» chimici.
Quando sarà chiamato a testimoniare a Los Angeles, Armstrong dovrà
sostenere sotto giuramento la propria innocenza. Nel caso venisse
sbugiardato rischierebbe un'incriminazione per falsa testimonianza che
potrebbe portarlo in galera - come è accaduto a Marion Jones - e a una
valanga di richieste di risarcimento da parte degli sponsor. «I dati
oggettivi», ha ringhiato l'avvocato di Armstrong, Bryan Daly, «i tanti
test anti-doping a cui Lance si è sottoposto dimostrano che è
innocente. Il resto sono ciance». Il resto comprende anche il rifiuto
di Armstrong di considerare validi i test su campioni congelati sul suo
sangue risalenti al ‘99, quando i controlli eran meno raffinati. «Da
questi test - ha raccontato Filippo Simeoni, che nel 2004 si scontrò
con Armstrong al Tour e poi dichiarò che il texano si "riforniva" dallo
stesso medico, Michele Ferrari, che gli aveva procurato testosterone ed
Epo - sarebbe risultato che Armstrong, in occasione del primo Tour,
faceva uso di Epo. In sei provette c’erano tracce della sostanza».
L'impressione è che l'ex boss del gruppo, che pure è stato difeso da
Gimondi e Moser («Lasciatelo in pace»), fallita la grande rentrée, sia
ormai solo. E destinato a pagare anche l'arroganza con cui spesso ha
gestito cose e persone nei tornanti della sua (stupefacente?) parabola
umana e sportiva.
da «La Stampa» del 28 luglio 2010 a firma Stefano Semeraro
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