| 08/02/2010 | 09:56 La morte non merita mai aggettivi, ma stavolta un po’ ingiusta lo è stata: non c’è persona, fra chi ha conosciuto bene Ballerini, che non senta di avere perso un fratello o un figlio. Perché Franco non era solo buono, bravo, grande, equilibrato, intelligente, garbato e signorile come lo ricordano tutti nel momento del dolore: più semplicemente, era un uomo raro. Di quelli, insomma, che ti migliorano la vita quando li incontri e diventano facilmente amici: per questo, non dovresti perderli mai. Di Franco Ballerini se ne possono raccontare tanti, ma in realtà ne è esistito soltanto uno: il corridore prima e il commissario tecnico poi sono sempre andati allo stesso passo della persona. Così il ciclista e il ct sono stati di spessore, come di spessore sono stati i risultati che, il secondo più ancora del primo, è riuscito a ottenere: dentro c’era la qualità di uno spirito mai sopra le righe e sempre un tono sotto, perché del «Ballero» non si racconterà mai altra forza che quella del dialogo.
IN QUESTO e in tante altre cose, Ballerini è stato la felice continuazione di Alfredo Martini, il maestro del quale si è sentito quotidianamente allievo anche quando ha cominciato a prenderne le stesse sembianze nell’albo d’oro: non per falsa umiltà, ma per una forma di rispetto che gli ha sempre consentito di fare convivere gli esempi antichi del ciclismo con le idee moderne. Le sue, in particolare, diventate scudo in un mondo che come ct lo ha accolto con lo snobismo riservato a chi non è stato fuoriclasse: un mondo che, davanti all’evidenza dei risultati, ha dovuto riporre critiche e polemiche. Questo, forse, resta il vero capolavoro di Ballerini: con la sua idea di fare della Nazionale una squadra, è riuscito a compattare anche l’ambiente del ciclismo. Non un fuoriclasse, in bici è stato campione nelle corse che amava. Più di tutte, la Parigi-Roubaix: prima di vincerne un paio (nel ’95 e nel ’98), ne ha persa una in modo clamoroso, facendosi beffare sul traguardo da un vecchio francese, Duclos Lassalle, che lo aveva pregato di non staccarlo. Ci restò male, ma reagì in perfetto stile Ballerini: «La prossima volta, la lezione servirà».
A FARE tesoro delle lezioni, ha imparato subito anche commissario tecnico: buttato nella mischia soltanto due mesi prima del Mondiale 2001, vide la sua prima Nazionale naufragare tra azzurri che si inseguivano fra loro e capitani che andavano a giocarsi la volata per conto proprio. Con la sua silenziosa autorità, Ballerini girò pagina già l’anno dopo, trasformando l’Italia da un elenco di primedonne in un gruppo vero: così ha raccolto quattro titoli iridati (Cipollini nel 2002, Bettini nel 2006 e 2007, Ballan nel 2008) e un’Olimpiade (ancora con Bettini ad Atene 2004), anche se il suo vero orgoglio era avere dato uno spirito collettivo e il senso di appartenenza a chi indossava la maglia azzurra. Mai in prima fila nelle vittorie, al servizio della causa Nazionale per 365 giorni l’anno, anche quando il destino gli ha inflitto la sofferenza di una malattia che il figlioletto è riuscito felicemente a sconfiggere, Ballerini si faceva voler bene anche fuori dal recinto del suo sport perché non aveva l’arroganza del vincitore, ma la serenità di chi sa ascoltare tutti. Un uomo giusto, che ci lascia una sola ingiustizia: costringerci a scrivere queste cose così presto.
da «Il Resto del Carlino» dell'8 febbraio a firma Angelo Costa
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