| 12/02/2005 | 00:00 «Lo hanno trattato come un criminale, ma lui non ha mai ammazzato nessuno. E' questa la cosa che piu' mi ha dato fastidio della storia di Marco Pantani. Hanno dato di lui una immagine sbagliata».
Anche per Eddy Merckx il 14 febbraio sara' un anniversario triste. Il Cannibale era stato molto vicino a Pantani durante il periodo dell'incidente al Giro del Piemonte del 1996: «Provo ancora oggi un grande dispiacere per come e' finita la vita di Marco - continua Eddy Merckx - ma di sicuro non si puo' dare colpe specifiche al ciclismo. Il ciclismo nella morte di Marco non c'entra proprio niente: sono state piu' importanti le cattive compagnie di cui si era circondato, la sua vita notturna, le debolezze caratteriali. Non e' lo sport ad aver ucciso Pantani. Lui e' andato a cercare altrove i motivi per vivere: e' probabile che, visto che non aveva una sua famiglia, dei figli, che ad un certo punto, insomma, non sapesse piu' per chi fare dei sacrifici».
Motivi privati, dice il Cannibale: ma c'e' chi accosta il nome di Pantani al doping, come un connubio stretto: «E anche questa e' una ingiustizia - ripete Merckx - e' sbagliato parlare di binomio Pantani-doping: aveva mezzi per vincere lo stesso, in un contesto fatto in un certo modo. Ah, se fosse rimasto con piedi per terra...».
Con la visione di Merckx e' d'accordo anche uno dei saggi del ciclismo italiano, Silvio Martinello, medaglia d'oro olimpica, piu' volte campione del mondo in pista, commentatore tv: «La tragica morte di Pantani dovrebbe insegnare che nel ciclismo non c'e' spazio per un certo tipo di star system, non sono applicabili le regole del superprofessionismo. Nel ciclismo quando ti stacchi sei da solo, non hai un allenatore che ti mette in panchina - fa Martinello - Nel caso di Marco c'era una predisposizione a stare sopra le righe, e lui non e' stato lungimirante, specie dopo lo stop di Madonna di Campiglio. Vedo un rischio: che questa morte tragica si trasformi in una leggenda, in un mito fantastico che normalizzi gli eccessi. E invece dovrebbe insegnare a tutti che nel ciclismo bisogna stare con i piedi per terra, e ricordare che in quegli anni semmai il problema del doping era generale, che ha sconvolto tutto, ma che i valori di Marco erano al di sopra del doping».
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