Ogni corridore ha almeno una storia, una meravigliosa storia, da raccontare. La sua. E’ quello che ho sempre pensato, saputo, e che continuo a chiedere a tutti i corridori di raccontarmi. Perché è proprio così. Non importa che sia (o sia stato) un passista o un velocista, una vecchia gloria o un giovane virgulto, un dilettante o un professionista, uno stradista o un pistard, toscano di Valle a Ema o burkinabè di Ouadagougou, esistono meravigliose storie anche di chi ha cavalcato solo biciclette da passeggio per andare a scuola o al mercato o in fabbrica. Non importa dunque che sia (o sia stato) un vincente o no, sulla bicicletta (e dunque anche nel ciclismo), non esistono perdenti, tutti vincono, se non altro su sé stessi, e con sé stessi: si vince la paura, la pigrizia, la noia, si vince il freddo o il caldo, si vince la solitudine, spesso – ed è un paradosso - si vince la solitudine con la solitudine.
Alessandro Vanotti aveva (e ha, e avrà) una meravigliosa storia da raccontare: la sua, ovviamente. E in “Gregario”, titolo, “La mia vita al servizio dei campioni”, sottotitolo, scritto con Federico Biffignandi (Bolis, 200 pagine, 16 euro), racconta i suoi anni di corsa da una corsa all’altra, da assistente e aiutante, da soccorritore e compagno, da amico e confidente, da operaio e proletario in bicicletta, non solo gambe e polmoni, ma sempre testa e cuore. Nel suo caso, una pulizia e una fedeltà ammirevoli, esemplari. “Non ci sarebbe stato Nibali – scrive Paolo Marabini nella prefazione – senza un Vanotti”.
Vanotti (io, scherzando ma neanche tanto, sostengo che si chiami Van Otti e che sia un fiammingo emigrato nelle Orobie) deve molto ai suoi genitori, lui lo sa e lo tramanda: “Mia madre era la dolcezza, l’educazione e il rispetto. Si era trasferita a Marsiglia da piccola perché suo padre aveva trovato lavoro lì, nei campi. Si alzava alle 5 di mattina per lavorare e poi andava a scuola. Mi ha trasmesso questo senso del sacrificio, della fatica, del conquistarsi ogni cosa con le proprie forze, nonostante tutto. Amava la Francia, il Tour de France, i girasoli che nel giardino di casa non mancavano mai. Mio padre, invece, lavorava come muratore e poi come operaio in alcune aziende della Bergamasca. Lo ricordo nitidamente, in ogni suo gesto quotidiano. Saliva in sella alla sua Bianchi di buon mattino per andare a lavorare a Dalmine. Tra andata e ritorno si faceva 30 chilometri al giorno, lavorando 10 ore per garantirci il minimo indispensabile per vivere”. Fu così che arrivò la prima bicicletta: “A 6 anni, un inverno, mio padre Luigi decise che era giunto il momento di acquistarmi la prima bicicletta. Andammo da Alfredo Piazzalunga, che le biciclette le costruiva come fosse un artista. Arrivammo da lui e tutto sapeva di ciclismo. Si respirava profumo di telai, cerchi, freni. Accanto a mio padre e guardando dal basso all’alto Alfredo scelsi la mia prima bicicletta da corsa. Azzurra”.
La bicicletta da corsa – tante si sarebbero succedute, una dopo l’altra, ancora adesso – gli sarebbe stata compagna fedele, strumento accordato, fino a diventare una parte di sé stesso. A 7 anni la prima squadra, la prima corsa, il primo sogno, la prima storia rotonda. Per una carriera – le giovanili, il dilettantismo, il professionismo – straordinaria anche se le vittorie personali sono state rare, ma quelle collettive (il ciclismo vive di questo paradosso: sport individuale di squadra) tante, tantissime, Giri e Tour, Vuelta e Svizzera, Tirreno-Adriatico e Lombardia. Ricordo una tappa del Tour de France, conquistai l’autorizzazione a seguirla in moto, abbracciando un pilota esperto e, come sentenziavano i miei brividi, folle, ma più folle ancora era proprio Vanotti. Chiesi al pilota di seguire proprio lui: un tiramolla, tra salite e discese (era un tappone di montagne), tra cedere e inseguire e infine raggiungere il traguardo entro il tempo massimo, lontano dalle lotte per il primato. Vanotti mi parve valoroso, stoico, meraviglioso nella sua fatica, nella sua magrezza, nella sua personalissima vittoria.
Qui si va dall’ucraino Sergej Gonchar a Michele Scarponi, da Ivan Basso a Danilo Di Luca fino a – appunto – Vincenzo Nibali, passando per gli Armstrong e i Wiggins e i Froome. E’ il ciclismo dei primi anni Duemila, più scientifico e tecnologico, ma anche, ancora una volta meravigliosamente umano. E la memoria di Vanotti (e la ricerca di Biffignandi) è davvero prodigiosa: ricordi ed emozioni indelebili. Fino al giorno in cui, se non le gambe, è la testa a cercare altre strade che non siano quelle delle corse. E se per san Paolo la folgorazione per una nuova strada fu a piedi, per Vanotti non poteva che essere a pedali. Novembre 2015, da Soncino a Roma, quattro tappe, infine l’incontro con il Papa: “Papa Francesco, in quel momento, lo vidi come un grande ciclista a fine carriera: affaticato, con le rughe, con i segni di una vita straordinaria ben impressi sulla pelle, un ciclista che non vuole mollare”.
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