“I coperchini. Anche qui il nome è locale. Sono i tappi a corona delle bibite, detti anche tappini o tollini a Milano, grette a Genova, fino a un misterioso sinàlcol a Parma, ma chissà in quanti altri modi li avranno chiamati i ragazzi italiani”. “Ricordo bene un Recoaro coi colori dell’iride e un Pack Soda, se non sbaglio recante una volpe in campo verde, che tappava la bottiglietta di una misteriosa essenza”.
Grande appassionato di coperchini, Francesco Guccini. Ne ha scritto in “Vacca d’un cane” (Feltrinelli, 1993), i ricordi della sua infanzia e adolescenza, e in “Storia di altre storie” (Piemme, 2001), un dialogo con Vincenzo Cerami, ne scrive anche nel “Dizionario delle cose perdute” (Mondadori, 2012), dal flit alla naia, dalla cerbottana alla fionda, dal cantastorie al lattaio, dalla carta moschicida alla maglia di lana, dal Meccano alla Topolino, fino al cinema, con eventuali ed eccezionali ricorsi storici di moda (o salute), come per il caffè d’orzo. E una copia del “Dizionario delle cose perdute” riappare magicamente in un book crossing, luogo di libri perduti.
“Il trionfo del coperchino era il Giro d’Italia. Lì ne bastava uno solo, e ne veniva scelto uno qualunque, ma abilmente trasformato. Perché doveva essere appesantito, in modo che, colpito con un possente ‘cricco’ (altrimenti non so definire il colpo dato dal dito medio trattenuto dal pollice e poi improvvisamente liberato a dispiegare tutta la sua forza), non volasse per aria ma corresse veloce sul marciapiedi sul quale doveva gareggiare”.
Guccini, nel coperchino, adagiava una figurina ritagliata: era quella di Fausto Coppi, ma per altri poteva essere Bartali o Magni, e per gli esterofili, Bobet o Koblet.
“Le tappe del Giro si svolgevano sui marciapiedi delle case nelle quali abitavamo, si intenda marciapiedi dell’immediato dopoguerra, pieni di buche, sconnessi in più punti – il che rendeva tutto più divertente”. Il marciapiedi della casa di un suo amico “era di sicuro il più interessante perché aveva, ai due ingressi opposti, quattro gradini semicircolari che fungevano come Gran Premi della Montagna. Quando il coperchino usciva dal marciapiedi, ‘forava’, e si doveva tornare da dove si era partiti”.
Fra le cose, o le persone, perdute, anche il postino in bicicletta. “Almeno in città, arrivava due volte al giorno, di prima mattina e nel primo pomeriggio”, “I postini non avevano scooter, né utilitarie con la scritta ‘Poste italiane’. Andavano in bicicletta, col borsone a tracolla. Forse, anche oggi, qualche giovane sportivo usa le due ruote per recapitare, ma una sola volta al giorno, la posta. Però si scrive molto meno e quello che spesso recapitano è, soprattutto, pubblicità. O cartelle esattoriali”.
Guccini ha 85 anni, un’età in cui il tempo va a differenti velocità: volando, il presente, e in surplace, il passato. Il c’era-una-volta non è nostalgia, non sempre: ma è culla e rifugio, è coscienza e conoscenza, è storia e resistenza. E’ umiltà e umanità.
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