
Pensieri sparsi e raccolti in tre settimane di Giro. Pensieri in libertà, nella corsa che più di ogni altra libera la nostra passione bambina. Quattro campioncini quattro che vivono tutti a San Marino e tutti nello stesso stabile all’ombra del Titano: Isaac Del Toro, Antonio Tiberi, Giulio Pellizzari e Davide Piganzoli. Quattro ragazzi finiti là in cima alla classifica rosa, che per loro è diventata casa, pianerottolo e cortile: probabilmente per diversi anni, da quelle parti e a quelle latitudini, abiteranno stabilmente. Condominio di campioni, da talento misurato in watt ma anche in metri quadrati. Finiamola di pensare a creare una squadra di World Tour, la soluzione è forse costruire un grattacielo.
LE SCONFITTE INSEGNANO. I grandi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Per Simon Yates l’amore assoluto era il Giro, che ha inseguito per anni, ma dal quale fu respinto in malo modo sette anni fa. Un dolore immenso, che ha lasciato cicatrici indelebili, che l’hanno aiutato a crescere, ad inseguire una maturazione che lo ha condotto da un’età ragazzina a quella adulta. La baldanza sfacciata persa sul Colle delle Finestre, l’incredula magìa di scoprirsi vincente su quella stessa striscia di terra e polvere che stavolta aveva il sapore dell’incenso, in una liturgia sacra, che ti conduce in una dimensione dove non pensavi più di poter albergare. Dalle Finestre è uscito, dalla porta principale è tornato a rivedere Roma e le stelle. Simon dai suoi errori ha imparato, così come la Visma che un tempo fu di Kruijswijk e che fu trafitta dalla sapiente tattica di Beppe Martinelli, con la sua Astana, con i suoi Michele Scarponi e Vincenzo Nibali. È proprio vero che le sconfitte fanno male, ma insegnano. Come ebbe modo di dire Nelson Mandela: «Io non perdo mai. O vinco o imparo». Simon ha imparato tanto.
CORSI E RICORSI. La storia si ripete e spesso si prende gioco di noi. Si è presa gioco anche di Richard Carapaz, certo di fare un sol boccone del bimbo messicano. Tutti ne erano convinti: gli basta la tappa di Champoluc per sistemare ogni cosa, dicevano in quei giorni. Sì, come no. La cosa buffa è che su di lui è ricaduto ciò che si era preso nel 2019 con un colpo di mano. Vi ricordate le discussioni tra Nibali e Roglic? Il furbetto ecuadoriano li mise nel sacco entrambi. Questa volta si è trovato lui in quella posizione: far baruffa con Del Toro, con l’aggravante che il messicano è un ragazzino inesperto e lui un navigato professionista, scaltro e pratico, che però alla fine ha fatto ricorso più alla lingua che alle gambe. Carapaz perde un Giro che pensava di aver già vinto, dopo averne vinto uno che forse spettava ad altri.
TERZA FORZA. Del Toro scornato, ma felice. Chiaro che per il pupo della UAE sarebbe stato più bello finire sul gradino più alto, ma forse va meglio così. Ogni tanto fa bene perdere. Meglio prendersi qualche vaffa, piuttosto che ricoprirsi di sospetti: ma come, vanno tutti forte? Certo, se i più forti li prendono loro, può accadere che poi vadano anche forte, ma in questo caso c’è chi è andato ancor più forte, quindi benissimo così. Tutti felici. Forse più gli UAE, che hanno delle gemme ancora grezze da tagliare. C’è anche quell’Ayuso che di testa si sente leader, ma dovrebbe imparare dalla storia. Si faccia spiegare, o mostrare, le immagini del Tour 2012, quando Chris Froome andava il doppio di Bradley Wiggins e lo fece vedere al mondo intero. Si mise al servizio, dimostrando a più riprese di essere di gran lunga superiore al proprio capitano, facendogli il passo, ma anche staccandolo, aspettandolo, dichiarando a reti unificate che era lui il più forte e per obblighi di squadra si metteva al servizio, rallentava, per far vincere il baronetto. Ayuso, se è tanto forte, faccia così. Le leggi del ciclismo sono molto più elementari e semplici di quanto si possa immaginare. Basta andare forte per prendersi la strada. Ma da questo Giro lo spagnolo esce perlomeno dimezzato. Lui si muove da leader, rivendicando un pensiero che non è dichiarato, ma è manifestato dalla postura: non sono secondo a nessuno. Vero, da questo punto in poi, è il terzo.
Editoriale da tuttoBICI di giugno