
Panizza che papà Angelo avrebbe voluto chiamare Vladimiro Ilic Ulianov in omaggio a Lenin, ma Don Antonio, il parroco, si oppose: “Non poteva battezzare un piccolo bolscevico”. E papà Angelo si accontentò del solo Valdimiro, poi semplicemente Miro.
Panizza che era un garzone, oggi si direbbe “driver”: “Andata e ritorno casa-bottega tutti i giorni, oltre ai tragitti per le consegne. Il ragazzo pedalava, con la foga consueta. E se incrociava un ciclista lungo la strada lo superava di slancio”.
Panizza che dal fratello maggiore Ermes ricevette in regalo una Legnano verde oliva che costava 40mila lire. “Poi la prima squadra mi ha dato una bici troppo grande. Quando sono riuscito a cambiarla, a stagione avanzata, sono aumentate le vittorie”.
Panizza che fece il servizio militare nella Compagnia atleti dei Bersaglieri a Milano, allenamento dalle 9 alle 15, “il problema era alla sera, perché i nonni ci costringevano a fare il loro letto e io non volevo. Sono testardo e orgoglioso, lo sai. Non volevo sottomettermi. E così ogni volta trovavo la branda sfatta e non mi facevano dormire”.
Panizza che debuttò fra i professionisti a 21 anni, era il 1967, la squadra – la Vittadello, capitani Michele Dancelli e Aldo Moser, direttore tecnico Gino Bartali - gli fornì “una biciclettina taglia mini, quasi un giocattolo, e una maglia bianconera larghetta, nella quale poteva starci una volta e mezza”.
Panizza che, Giro d’Italia 1967, tappone delle Tre Cime di Lavaredo, scattò a 8 km dall’arrivo, da solo, in fuga, finché a 400 metri dal traguardo fu raggiunto e risucchiato da corridori spinti a forza di braccia, e allora scoppiò a piangere. “Mi hanno fregato! Io sono salito con le mie gambe”.
Panizza che poco dopo quel Giro vide per la prima volta Mariarosa, fu lei a prendere l’iniziativa, “Buonasera, è lei il famoso Panizza?”, che pochi giorni dopo la vide per la seconda volta, fu lei a chiedergli un autografo, “Finalmente posso vederla da vicino”, che la terza volta lui finalmente si fece coraggio e le scrisse un bigliettino per invitarla alla stazione di Varese, e che la quarta volta, passeggiando nei Giardini estensi, si dichiarò.
Panizza che fu sorpreso dai Carabinieri mentre, arrampicato su una pianta, rubava la frutta, e all’intimazione “Giù di lì, manigoldi. Perché lo fate?”, rispose semplicemente “Perché abbiamo fame”, e se la cavò con una tirata d’orecchi.
Panizza che il 25 luglio 1967, nel Gran premio Montelupo, andò in fuga con Gianni Motta, 70 chilometri senza tirare un metro, però aspettando Motta quando forò, poi in volata non esitò a saltarlo e vincere la sua prima corsa da professionista.
Panizza che, Giro d’Italia 1973, osò orgogliosamente riferire che “Eddy mi ha detto che gli davo fastidio”, eppure Eddy Merckx fu in maglia rosa dal primo all’ultimo giorno, secondo Felice Gimondi a 7’42”, sesto Panizza a 19’45”.
Panizza che, Giro d’Italia 1980, tappa Foggia-Roccaraso, andò in fuga con Bernard Hinault, a tirare fu Hinault, stavolta Panizza evitò di saltarlo e vincere, “sono cose che non si fanno – avrebbe spiegato – quando si è in due uno prende la maglia e l’altro la tappa”, e lui, a 35 anni, prese finalmente la maglia rosa, poi pianse.
Panizza che, in quel Giro del 1980 maglia rosa ma gregario di Beppe Saronni, “la sera in albergo si ripeteva la consueta sceneggiata, il Miro andava in camera da Saronni e lo informava ‘Giusep, l’ho visto mal…’, ma le parole non erano sufficienti a battere il bretone.
“Miro Panizza – Campione tra i campioni” (Macchione, 232 pagine, 20 euro), bel libro di Paolo Costa su un piccolo grande corridore
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