
Solo Roglic batte Babini. Primoz ha cominciato a correre a 22 anni, Battista a 20. Quanto ai risultati, si sa, alla fine sono soltanto statistiche.
Babini, perché si avvicinò al ciclismo così tardi?
“Perché a me piaceva da matti, ai miei per niente. I miei genitori me lo avevano vietato: un rischio inutile, una perdita certa. Famiglia contadina, per campare bisognava lavorare nei campi, il resto era solo sudore sprecato. Così, quando compii 20 anni e mi considerai maggiorenne, anche se l’età in cui allora si diventava finalmente maggiorenni era 21, racimolai i risparmi e con 21mila lire acquistai una bicicletta Alpi”.
Poi?
“Cercai una squadra, andai a Faenza, mi chiesero quanti anni avessi, risposi 20 o 21, mi chiesero che cosa facessi, risposi il contadino, mi dissero di continuare a farlo. Ero demoralizzato, sospettavo che fosse stata stretta un’alleanza tra la squadra e i miei genitori. Però avevo un amico, che a sua volta era amico di un prete a Castel Bolognese, e grazie al prete entrai nell’associazione ciclistica Oriani”.
La prima corsa?
“Alla fine del 1959, il Trofeo Pizzoli a Bologna. Fino a quel momento mi ero sempre allenato da solo, né di ciclismo né tantomeno di allenamenti sapevo qualcosa. Mi ritrovai nel gruppo di testa, c’erano anche due fuoriclasse della categoria come Venturelli e Trapè – Meo aveva vinto il Pizzoli nel 1957 e 1958, Livio lo avrebbe vinto nel 1959 -, un corridore mi chiese di dove fossi, gli risposi di Bagnara di Romagna, mi chiese che cosa facessi, non sapevo che cosa rispondergli, che stessi cercando di correre era chiaro, come stessi cercando di correre non lo era affatto, ma proprio in quel momento fui penalizzato o forse salvato da una foratura e dal salto della catena, così mi fermai. Quel corridore era Cesare Fontanelli, e sarebbe diventato mio compagno di squadra l’anno dopo nell’Aviomobil”.
La prima vittoria?
“Nell’ultima corsa del 1960, a Firenze. Li staccai tutti, arrivai da solo, solo quello poteva essere il mio modo di vincere. Finalmente nel 1961 mi insegnarono ad allenarmi e a correre e vinsi 13 corse. Fontanelli fu convocato a Milano per passare professionista nella Molteni, lo accompagnai, c’era una corsa, alla corsa assisteva Giorgio Albani direttore sportivo della Molteni, alla fine della corsa Albani ingaggiò me e non Fontanelli. Ottavo all’Agostoni, secondo nel Baracchi con Fornoni. Promettevo bene”.
Invece gregario?
“Due anni alla Molteni, quattro alla Salvarani, quattro Giri d’Italia e un Tour de France. I gregari spingevano e tiravano, prendevano e portavano da bere, assaltavano fontane e fontanelle, svaligiavano i bar, il più bravo era Germano Barale, ma io non ero da meno, urlavamo ‘paga Torriani’, ma i baristi erano comprensivi, solo una volta un barista prese il numero del mio dorsale, rintracciò l’albergo della mia squadra, però a pagare il conto non fui io ma la Salvarani. Rare le giornate di libertà: un secondo posto al Giro del 1963 dietro a Vendramino Bariviera, un secondo al Tour del 1964 dietro a Jean Stablinski, un terzo e un quarto al Giro del 1964, ma sempre contento di essere arrivato secondo, terzo o quarto. E una vittoria nella Sassari-Cagliari, era il 1963, in volata con altri cinque fuggitivi”.
Perché a 26 anni smise?
“Al Giro del 1965 un giorno sentii un peso nel petto, il medico mi disse che era colpa di un’indigestione, invece si trattava di paratifo, febbre alta, mi ritirai, mi fermai una ventina di giorni, quando ricominciai non andavo più come prima. Mi sposai e aprii un negozio di generi alimentari, poi seguii un corso da massaggiatore e cominciai proprio con corridori e squadre, anche al Giro. Il ciclismo mi aveva dato lavoro e avrebbe continuato a darmelo”.
Che sport.
“Il ciclismo mi ha fatto amare e conoscere Gino Bartali, insieme nella Cosatto, lui faceva pubblicità in macchina, io massaggi in un’altra macchina, la sera si beveva insieme un bicchiere di vino, lui di più, e si fumava insieme anche una sigaretta, lui di più, e pensare che io non avevo mai fumato in vita mia. Il ciclismo mi ha fatto affrontare le salite, la più bella?, il Pordoi, quel giorno avevo la gamba buona, perché tutte le salite, anche i cavalcavia, quando si va piano, diventano terribili. Il ciclismo mi ha fatto dormire in camera anche con Vito Taccone, non so se russasse, io ero così stanco che appena toccavo il cuscino mi addormentavo. Il ciclismo mi ha fatto scoprire Vittorio Adorni e Felice Gimondi, ma anche Eddy Merckx, che era tutta un’altra cosa”.
Nessun rimpianto?
“Forse non aver condotto la vita precisa dell’atleta. La disciplina era ferrea: per anni, anche dopo aver smesso di correre, continuai a mangiare riso in bianco e bistecca ai ferri. Ma andavo a occhio. E qualche volta, è una questione di carattere, sgarravo”.
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