Caro direttore,
è una triste vicenda, comunque vada a finire, quella della Epowers Factory Team. La nuova squadra-stato al centro di un progetto quinquennale da 450 milioni di euro per lo sviluppo del ciclismo, il nuovo fiore all’occhiello dello sport magiaro, rischia di naufragare ancora prima di partire. Il ministro dello sport, Tunde Szabo, ne aveva parlato anche sui social più volte in termini entusiastici. La voleva a Budapest, il 9 maggio, al via del Giro d’Italia. Nientemeno che Viktor Orban, il potentissimo primo ministro (e qualcosa di più), strizzava l’occhio orgoglioso. Invece, a poche ore dalla scadenza del 1° novembre, niente da fare, tutto fermo: non ci sono soldi, niente coperture, nessuna garanzia. Dalla Ernst&Young una serie di semafori rossi. Non definitivi, ma minacciosi. Nel team di Tamas Pocze solo tante parole. Poi approssimazione, e forse incompetenza, di fronte alle regole dell’Uci. Dei quasi cinquanta contratti firmati, di famiglie lasciate al vento, di sogni che rischiano di spezzarsi a questa brigata frega meno di zero. Ma a maggio, come sappiamo, c’è il Giro. Senza la squadra, con quale faccia si presenteranno? Con quale dignità cercheranno la ribalta? Con quale credibilità apriranno bocca in pubblico? Annientati.
Ma, caro Stagi, torniamo in Italia. Metà corridori di quella squadra è italiano, lo staff lo è interamente. C’è il rischio che restino tutti a piedi. Eppure, ecco lo squallore di chi si frega le mani. Alcuni di questi signori hanno anche bussato alla porta ungherese - magari per cercare soldi o per trovarsi uno spazio loro oppure per vendere dei corridori - e sono stati respinti. Ora, meschini, ne parlano male e sghignazzano felici di fronte al possibile naufragio. Li conosciamo.
Però, caro direttore, non stupiamoci se l’Italia nel ciclismo, prima di tutto a livello politico, non conta più nulla. Se non si trovano sponsor disposti a farsi mungere, se non s’incontrano istituzione che aprono le porte. Questo, cioè di statura bassissima, è il nostro valore morale.