BERNAL, LA NUOVA STELLA

PROFESSIONISTI | 26/08/2019 | 07:46
di Pier Augusto Stagi

Se pensa all’Italia, si vede con l’acqua alla gola. Il mare della Sicilia. Il primo bagno della sua vita, nei pressi di Catania. Il secondo pensiero è per i tornanti dell’Etna. Per Egan Bernal, talento assoluto del ciclismo mondiale, originario di Zipaquirà, 2.650 metri di quota nel dipartimento di Cundina­mar­ca - arrivato nel nostro Belpaese dopo il Mondiale juniores di mountain bike ad Andorra (2015), con una bella me­daglia di bronzo al collo, per vo­lontà dell’allora suo procuratore, Pao­lo Alberati, ex corridore professionista, giornalista e scrittore - il nostro Paese è molto di più di un luogo di transito, ma è casa. Inizial­men­te la casa di Alberati, che l’ha accolto. Poi luogo della formazione, dato che il nuovo re del Tour all’epoca sapeva andare forte con la bici da mountain bike, ma non aveva assolutamente di­mestichezza con la bici su strada.


Tutto inizia grazie ad Andrea Bianco, ct della nazionale colombiana di moun­tain bike che, in vista di quella gara ad Andorra, segnala ad Alberati questo grande talento. Grazie ad un ac­cordo con la federazione, Bianco riesce a prolungare il volo di rientro da Barcellona a Bogotà di trenta giorni, e il talent scout Alberati organizza l’arrivo del biker in Sicilia.


L’atterraggio in piena notte a Fontana­ros­sa, che segna l’inizio dell’avventura nel Vecchio Continente del giovane Bernal. Le due gare disputate prima di stipulare il suo primo contratto con l’An­droni Giocattoli si tengono a Mon­talbano Elicona e sulle strade toscane: due vittorie nette, ottenute sbaragliando i rivali.

Se pensa all’Italia, Egan Bernal, nuovo trionfatore del Tour de France a soli 22 anni, si vede in costume per la pri­ma volta nel mare. E poi in bicicletta, sui tornanti che portano su all’osservatorio astrofisico dell’Etna.

«La Playa di Catania è il luogo del suo primo approccio col mare - ricorda oggi con un pizzico di commozione e orgoglio Paolo Alberati -. Non sapeva nuotare e non aveva mai toccato l’acqua, per questo siamo andati al Lido Azzurro. Lui, però, ha desiderato che andassimo fin lì in bicicletta, per non perdere un giorno d’allenamento. Gli ho fatto anche visitare la pescheria di Catania: sempre rigorosamente in sella alle due ruote».

Talento assoluto Egan. E Alberati ha la sensibilità necessaria per capire chi ha di fronte. «Solo un cieco non capirebbe chi ha davanti ai propri occhi…», dice.

«Quello che mi colpì di questo ragazzo sono l’intelligenza e i suoi modi garbati e gentili di porgersi - racconta oggi -. Lui dice di essere stato fortunato di avermi trovato sulla propria strada, ma lo stesso discorso vale per me».

Un altro aneddoto curioso, riguarda il primo giorno d’allenamento su strada, complice la mancanza di abitudine e un asfalto leggermente bagnato, finì a terra a Trecastagni all’altezza di una rotonda: da allora, quella rotonda por­ta scherzosamente il suo nome.

«È una “macchina”: dorme, mangia, si allena, dorme, mangia» prosegue Albe­rati, che si è commosso nel vederlo in maglia gialla.

Un particolare rivela l’attaccamento del­la maglia gialla alla Sicilia: «A metà strada tra l’Isola Bella e Taormina - racconta Alberati - c’era una casa abbandonata. Mi ha detto che un giorno gli sarebbe piaciuto comprarla. Chissà che un giorno torni per acquistarla. Così potrebbe anche mangiare nuovamente la crostata di mia moglie Valeria, di cui andava ghiotto, o una buona pizza. Lo aspettiamo a braccia aperte con la fi­dan­zata Xiomy, quando vuole».

Dalla Sicilia alla Colombia i motivi per festeggiare non mancano. Nel mese vissuto a Pedara faceva vita da atleta, dormendo molto e mangiando in maniera equilibrata.
«Niente zuccheri, pane tostato, molte uova, prosciutto e solo un po’ di the. Il caffè lo ha bevuto soltanto una volta, lo ha fatto agitare - prosegue il racconto Alberati -. Durante un pranzo, ha rifiutato anche una lattina di Coca Cola of­fertagli da mia moglie Valeria. Ci ha confessato di non berne da un anno co­me fioretto dedicato alla possibile vittoria del mondiale di mountain bike ad Andorra. In quell’occasione era giunto terzo e aveva deciso di prolungare l’astinenza fino alla firma del pri­mo contratto. Egan si è concesso quella lattina solo dopo la firma dell’accordo con la Androni Giocattoli di Gianni Savio».

Due anni (2016-2017), alla corte del Principe del ciclismo, sotto l’occhio at­tento di Giovanni Ellena, persona talmente garbata e perbene che è anche limitativo ridurre a semplice direttore sportivo.

Egan, nato il 13 gennaio come un certo Marco Pantani, fa base per un po’ di tempo all’albergo-ristorante Buasca, in una frazione di San Colombano Bel­monte, prima di trasferirsi in un appartamento a Cuorgné.

«La salita di Ceresole Reale-Lago Ser­rù era una delle mie preferite - racconta il colombiano della Ineos -. Nel Ca­na­vese mi sono trovato benissimo, ancora og­gi ho tanti amici che mi vogliono be­ne e ai quali io mi sento profondamente legato».
Vladimir Chiuminatto per lui ha fondato un fan club che ormai conta più di 250 soci e alla fine di ogni anno si ri­trova per festeggiarlo e contribuire con­cretamente alla «Fundaciòn Me­zue­na».

Nonostante abbia solo 22 anni, ragiona da grande. Calmo, pacato, riflessivo. Mai una parola fuoriposto. Se in bicicletta sembra un predestinato, giù di sella per la sua maturità è già un uomo. Lui deve maturare, ma come tutti i campioni che si rispettino, è ca­pace di anticipare le azioni: proprio come in bicicletta. A vederlo sembra avere pazienza, ma quando ha il numero sulla schiena Egan si porta sempre avanti con il lavoro, e non è un caso che al momento abbia già vinto corse importanti per la sua età (California 2018, Parigi-Nizza e Giro di Svizzera 2019). Una su tutte: vi dice niente il Tour de France?

Parla la lingua di Dante con grande piacere e anche in inglese se la cava egregiamente. Dal Canavese è passato a vivere ad Andorra, ma un legame con il Grande Piemonte e il nostro Paese ce l’ha sempre, avendo come procuratore il biellese Giuseppe Ac­qua­dro: «Ha un’intelligenza fuori dal co­mune - dice -. Sa dove vuole arrivare, e ci arrivato».

«Non lo dico per farvi piacere, ma io davvero mi sento un po’ italiano - ci racconta il diretto interessato: la maglia gialla -. Siete un popolo generoso, ac­cogliente, che ha fatto tantissimo per me. L’anno scorso, al debutto, il Tour mi faceva paura. Quest’anno mi sono trovato molto meglio».

Si muove con calma, con quel sorriso tra il malinconico e il sognante. «Cosa mi ha accompagnato nelle tre settimane del Tour? La passione. Ho sentito attorno a me tanto amore. E voi italiani mi avete letteralmente ricoperto. Visto che non potevate vincere la Grande Boucle con Vincenzo (Nibali, ndr) o Fabio (Aru, ndr), avete ripiegato sul sottoscritto: io di questo ve ne sono grato. Nei due anni che ho trascorso da voi, si sono creati tanti legami che ancora og­gi sono vivi. Mi sento un po’ italiano. Cosa mi manca di più adesso che non ci vivo? Il gelato. La Nutella. E gli amici, che sono diventati come dei fa­miliari. Non vedo l’ora di tornare nel Canavese, di passare qualche giorno a Cuorgnè con Vladimir e con il Buasca Team. E poi mi manca l’Androni (Gian­ni Savio e Giovanni Ellena in primis, ndr). Ho corso due anni con loro, ed ero felice».

Felice è oggi un’intera nazione, la Co­lombia, che è ormai il punto di riferimento del ciclismo mondiale. Un mo­mento magico per tutto il Sudamerica, che a giugno ha festeggiato anche la maglia rosa dell’ecuadoriano Richard Carapaz. «Il ciclismo è lo sport nazionale, e negli ultimi anni è stato fatto tanto per far crescere questo movimento. Rigoberto Uran, Nairo Quintana e poi Chaves… Uno, un altro, un altro ancora e i ragazzi si appassionano, co­minciano a pedalare. Noi siamo dall’altro lato del mondo, prima anche i semplici collegamenti aerei erano più difficili, oggi il mondo è globale, le distanze sono più vicine». E la Colombia è in fuga…

«Essere cresciuto ad oltre 2.500 metri credo mi abbia aiutato. Ho una salita dove prima di venire in Europa faccio sempre un test, si chiama El Pacho. È lunga 23 chilometri, sei per cento di pendenza media. Finisce a 3.200 metri di quota. Ci ho pensato salendo verso Val Thorens, a ogni chilometro mi di­cevo “uno di meno”. Poi ho visto l’arrivo e mi sono detto “ho vinto il Tour”».

Poi un lungo respiro, e con quel faccino da bravo ragazzo aggiunge: «Cosa mi porto a casa? Il giorno che sono salito per la prima volta della mia vita sul podio del Tour. Quel giorno l’ho fatto per vestire la maglia bianca di mi­glior giovane, mi sembrava già di toccare il cielo con un dito. Poi mi sono ritrovato in maglia gialla a Parigi, con Xiomara, la mia fidanzata con le lacrime agli occhi. E papà German che non la finiva più di urlare, mamma Flor non smetteva di piangere. Lì, su quel podio, in mezzo a tanta gente e guardato dal mondo, mi sono sentito semplicemente in pace con me stesso».

da tuttoBICI di agosto

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