STORIA | 02/12/2017 | 07:25 «Credimi, se decidono di tagliare il Giro e la Vuelta di una settimana fanno solo un favore al Tour, ma alla fine si ritorcerà contro anche su di loro. Una cosa del genere non va verso l’innovazione e il nuovo: è solo il preludio di un inevitabile declino che condurrà il nostro sport alla fine». Marco Cattaneo è uno che il ciclismo ce l’ha nel sangue. Molto più oggi di quando il corridore avrebbe dovuto farlo con maggiore impegno e professionalità. «Ma ero una testa così: un po’ troppo giovane, un po’ troppo dotato e poco portato per il sacrificio. Quando si ha la pancia piena non si va da nessuna parte, e questa regola non vale solo per il ciclismo».
Marco Cattaneo è stato una meteora del ciclismo, una delle tante, ma certamente una delle più luminose. È passato in fretta, un accenno di luce. Poi il buio. Un grande passato nelle categorie giovanili, con le maglie della Lema di Domenico Garbelli e della Isal Tessari di Enrico Maggioni. Una sessantina di vittorie, di spessore e peso, con il Liberazione a risplendere su tutto, assieme a tappe al Giro Baby, alla Colli Briantei e alla Milano-Tortona.
Nato a Rovellasca (Co) il 28 ottobre 1957, ha partecipato anche alle Olimpiadi di Mosca (14° nella prova in linea). Nel 1977 si laurea Campione Italiano dell’inseguimento (specialità in cui fu eliminato nelle qualificazioni ai Mondiali) e a squadre. Tra i professionisti soltanto due stagioni (1981 e 1982), con la maglia della Famcucine di Francesco Moser e gli Amici della Pista. Tra i suoi successi anche il Campionato Italiano Mezzofondo Indoor nel 1982.
Poi l’addio, a soli 25 anni: e dire che non eri male… «Ma se non hai la testa, non vai da nessuna parte».
Cosa ti mancava? «La voglia di capire i propri limiti. Io non mi sono neanche messo alla prova, non avevo pazienza. Volevo tutto e subito. Ero una vera testa di…».
Pentito? «Qualche anno fa sì, oggi che ho sessant’anni sono in pace come me stesso e mi ritengo un uomo assolutamente fortunato, che ha avuto molto dalla vita».
Ti sei realizzato come imprenditore e hai riscoperto il piacere di andare in bicicletta. «Papà aveva fondato nel 1960 la FIAM, acronimo di Franco, mio padre che ci ha lasciato dieci anni fa. Ida, mia madre che ha 91 anni. Attilia che è mia sorella e Marco, il sottoscritto. Azienda di Rovellasca che produceva chiavi e serrature. Io quando ho deciso di smettere sono entrato in azienda e poi l’ho sviluppata. Quando ho capito che il mondo stava cambiando sempre più rapidamente, ho cercato un partner forte e al passo con i tempi. È arrivata la famiglia Facchinetti, con la loro ISEO serrature: prima ho ceduto una parte, ora è tutta ISEO, e io mando avanti la sede di Rovellasca. Andiamo bene, siamo al passo con i tempi, guardiamo al futuro».
Anche il ciclismo guarda al futuro… «Ma se pensa di risolvere tutto con la riduzione dei giorni di corsa nei Grandi Giri commette un grave errore. Ho letto che Lappartient, il nuovo numero uno del ciclismo mondiale, la pensa così, anche se mi hanno detto che il pensiero raccolto da Repubblica non sia esattamente questo, perché il francese la penserebbe diversamente».
Francamente anch’io sono sorpreso, spero solo che sia stato interpretato male. Ma parlami del tuo rapporto con la bicicletta. «Oggi io ho riscoperto il ciclismo, come tanti. Fa bene, mi rilassa, faccio cose che primo non facevo, come pedalare sul Passo Giau. Se rendiamo il ciclismo troppo accessibile, troppo semplice e prevedibile, gli appassionati sceglieranno di mettersi in gioco direttamente come già fanno. Gli eroi della strada devono essere eroi, non comparse. Noi oggi pensiamo alla sicurezza delle abitazioni, a come gestire al meglio la sicurezza di casa e non solo. Basta un badge, un “i Phone”, con il futuro noi ci dialoghiamo quotidianamente, ma chi pensa di risolvere e risollevare le sorti del ciclismo con la semplificazione sbaglia. La strada da percorrere nel ciclismo e nello sport è esattamente il contrario. Lo sport è per tutti, ma le grandi corse devono essere solo per pochi: per l’eccellenza. Vogliono tutti i corridori al via nei Grandi Giri? Meno corridori, meno squadre e obbligo di partecipazione a tutte le gare. Il mercato è globale ma si sta restringendo con grandi gruppi, pochi e fortissimi: l’eccellenza. Il ciclismo che fa? Si polverizza. È la morte». Torniamo al Marco Cattaneo corridore… «Beh, c’è poco da dire: è durato così poco…».
Eppure alla tua prima stagione da professionista, con la maglia della Famcucine, nel 1981, disputasti una Roubaix da urlo… «Vinse Bernard Hinault, secondo Roger De Vlaeminck, terzo Moser, il mio capitano, quarto e quinto due belgi: Guido Van Calster e Marc Demeyer. Io a 20 km dal traguardo vengo ripreso da questi cinque corridori, dopo una giornata all’attacco. Mi guardo attorno e mi sembra di sognare. Mi dico: sogno o son desto? Franz appena mi vede mi grida: “Stai davanti”. Penso: è già tanto che sto in equilibrio. Dopo poco mi stacco. Finito come un calzino. Arrivo nel velodromo 12° a 3’48” da Hinault. Ma prima di tanti campioni del calibro di Eddy Planckaert, Johan Van der Velde, Jean-René Bernaudeau, Sean Kelly, Gilbert Duclos-Lassalle e Gregor Braun. Non capivo più niente, ricordo solo che feci la doccia seduto per terra, come un Cristo in croce».
Dopo una prestazione così, generalmente ci si gasa e si va avanti… «E io vado al Giro di Puglia, e perdo una volata per un niente. Battuto da Beppe Saronni, non da un pirla qualsiasi. Mi dico: questo lavoro fa per me. Poi non corro il Giro d’Italia per alcuni problemi fisici, mi siedo, mi rilasso, mi godo quel pizzico di fama che ho, ma il ciclismo ha bisogno di fame e non fama. Mi perdo. A fine stagione già non voglio più correre, poi Angelo Laverda mi convince: vieni con noi, fai un po’ di pista con gli “Amici della pista”. Probabilmente in quel modo pensava di riportarmi dentro, un modo per tenermi legato al ciclismo, ma io alle catene ho preferito i lucchetti e le serrature di papà. Apparentemente ho scelto la strada più comoda e immediata. Poi ho scoperto che nulla è semplice e facile come sembra, ma ognuno deve fare la propria strada. E io un po’ ne ho fatta. Ora sono tornato a pedalare, per il gusto di farlo, con il mio amico Alberto Volpi. Sto bene e sono felice: ho Sara, mia moglie. E tre figli: Marcello, Carolina e la piccola Nicole. Si fa squadra, si fa sistema: si pedala».
Mai pensato di fare un po’ di politica sportiva? «Smesso di correre, sempre per tenermi dentro, mi hanno proposto un ruolo di componente della commissione Tecnica della Lega. Giro 1988, Arco di Costantino, caduta con Rodolfo Massi che ne esce malissimo. Io vengo contattato da un giornalista che ci ha lasciato tropo presto, Titta Pasinetti del Giornale. Gli confido che non si possono visionare i percorsi a 15 giorni dall’inizio di una corsa come il Giro. Lui scrive tutto. E io vengo cacciato. Fine della mia esperienza politica. Meglio un Giro in bici, con gli amici di una vita, come Alberto Volpi».
Parole Sante Sig.Cattaneo, mi sbagliero', pero' mi sbilancio, io vedrei bene Marco Cattaneo come Presidente della F.C.I, mi piace il suo modo di presentarsi, di come parla del suo passato da Ciclista e sopratutto sono sicuro che avrebbe delle Buone, ma sopratutto nuove, idee su come migliorare questa situazione........del nostro Ciclismo. VOTO 10
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